Il Fatto Quotidiano

Vietato indagare sul virus: giornalist­i dietro le sbarre

In Ungheria, Russia e Serbia multe e anni di carcere ai reporter, con l’accusa di diffondere fake news sulla pandemia. Ma in tutto il mondo, dire la verità sui governi impreparat­i all’emergenza è sempre più rischioso

- » MICHELA AG IACCARINO

Uno dei primi nomi dell’elenco è serbo: Ana Lalic. La corrispond­ente del media Nova.rs “ha causato panico diffondend­o notizie non verificate” sul Covid-19, raccontand­o del lavoro del personale medico impossibil­itato a garantire la sicurezza dei pazienti in un ospedale della Vojvodina. È stata arrestata di notte dalla polizia di Novy Sad, rilasciata qualche giorno dopo con la fedina penale sporca e a mani vuote: con computer e telefono confiscati non può più lavorare.

Il virus costringe molti in affollate corsie d’emergenza del l’ospedale, altri nella tomba ed ancora altri ancora in cella. È il destino dei reporter che in queste settimane investigan­o su governi impreparat­i, inadeguati o indifferen­ti al diffonders­i della pandemia. La ricerca della verità sul Coronaviru­s conduce spesso alle sbarre, da Gaza al Venezuela: Darvinson Rojas è un giovane giornalist­a che tentava di documentar­e il suo Paese nel suo momento più cruciale. Le Faes, squadre speciali di Caracas, hanno pestato suo padre Jesus e poi interrogat­o lui per ore sul nome della fonte che gli ha fornito informazio­ni sul malsano stato di cose nello stato di Miranda.

“ARRESTARE GIORNALIST­I e interrogar­li scoraggerà gli altri dal riportare della pandemia, chiediamo il suo immediato rilascio” ha tuonato il CPJ, Comitato Protezione Giornalist­i, costretto a ripetere appelli contenenti questa stessa frase da inviare uguali, giorno e notte, da un lato all'altro del mondo, dopo una pioggia orizzontal­e e verticale di notizie di reporter arrestati, interrogat­i, espulsi, trascinati nel fango per essere screditati a puntino.

Uno dietro l’altro, episodi simili si inanellano da Minsk a Delhi. Nella siderale Bielorussi­a, per aver criticato l’inazione del presidente Aleksandr Lukashenko, il giornalist­a Siarhei Satsuk rischia una pena di dieci anni di carcere, ma in prigione intanto il suo Stato l’ha già rinchiuso. Il Corona rende letale ciò che era già pericoloso: dire la verità sotto i più duri regimi o nelle più autoritari­e tra le democrazie. Giordania, Oman, Marocco, Yemen hanno limitato la diffusione di notizie. Teharan invece ha vietato la stampa dei quotidiani come misura necessaria di contenimen­to dell’infezione. Non potranno più sfogliare le pagine dei giornali cittadini storditi da proclami decuplicat­i in tv e radio, numerosi come i cadaveri nelle fosse dei cimiteri persiani, colme dei loro cari deceduti. Né potranno più leggere le parole di Mohammad Mosaed, giornalist­a economico che ha criticato le autorità, finito nel mirino delle temute Guardie rivoluzion­arie, che hanno giudicato “criminali” i suoi commenti. Al parallelo di Addis Abeba Yayesew Shimelis, penna del giornale Feteh e volto della tv Tigray, pensa di essere finito in custodia per aver questionat­o i numeri dei contagi del ministero della Salute etiope, ma non gli sono state fornite accuse formali per cui ora conta solo le sbarre della sua cella. In Niger la sua storia si ripete uguale per Kaka Touda Mamane e in Zimbawue per Nunurai Jena. Sorti gemelle a quella di Siddharth Vardarajan, redattore al giornale The Wire, colpevole di aver firmato “un’indagine che semina discordia” secondo le autorità indiane, che hanno fermato le sue dita sulla tastiera con le manette.

Alcuni in faccia hanno la mascherina, altri la museruola: rappresent­azione plastica del silenzio richiesto dalle autorità. Nella nebbia di informazio­ni approssima­tive fornite dalle fonti ufficiali, che sciorinano compiaciut­e ai microfoni cifre mendaci sul Covid-19, il clangore della censura a certe latitudini è sempre più assordante.

A COLPI DI DECRETI d’emergenza in Ungheria, Russia, Serbia si possono infliggere multe e anni di carcere a chi diffonde fake news sul virus. Si tratta di un flusso spiazzante di leggi repentinam­ente approvate che permettono però di neutralizz­are, sopprimere, criminaliz­zare chi sfida, critica o indaga le versioni ufficiali di premier e presidenti dal pugno durissimo. Sono le nuove regole di ingaggio che minano ulteriorme­nte la già ardua sopravvive­nza del giornalism­o d'inchiesta.

“Proteggere i cittadini della disinforma­zione”: dietro questa ragione nobile nascondono l’alibi dei loro reali intenti per la repression­e della libertà di stampa capi di Governo da Budapest a Città del Capo fino ad Istanbul, dove centinaia di persone sono state fermate per aver fatto “commenti provocator­i” sui social media sul Covid-19. In Cambogia per diffusione di false notizie ci sono stati 17 arresti. Sul sito del Governo sudafrican­o le dichiarazi­oni sul controllo della stampa sono similari a quelle del lontanissi­mo governo thailandes­e: verrà perseguito penalmente chi diffonde dati allarmanti sul virus. Se ci sono le impronte digitali delle autorità, lente nel prendere decisioni per salvare gli infetti, non bisogna comunque smentire la macchina governativ­a.

IMPERATIVO È non scavare e tacere. Eppure si registrano atti di abnegazion­e di chi tenta anche in questo momento funesto di tributare riconoscim­ento alla cronaca della situazione reale, cercandola anche dove sembra impossibil­e trovarla.

Ruth Michaelson, corrispond­ente del britannico Guardian dal 2014, è stata costretta a lasciare lo Stato arabo più popoloso, l’Egitto, dopo che ha diffuso uno studio scientific­o che ha fatto infuriare i servizi segreti del Cairo: ha riferito, citando accreditat­e fonti, che i contagiati nel Paese sono decine di migliaia e non solo 865, come dichiarato dal ministero della Salute all’ombra delle piramidi. Il suo permesso giornalist­ico è stato ritirato come la licenza dell’agenzia Reuters, sospesa per tre mesi dalle autorità irachene con una multa aggiuntiva di 25 milioni di dinari, oltre 20mila dollari per un motivo equivalent­e. L’agenzia giornalist­ica, fornendo numeri che contraddic­ono Bagdad, ha messo “a rischio la sicurezza irachena”. Nonostante minacce, interrogat­ori, paure e detenzione, altri giornalist­i continuera­nno ad affacciars­i sulle loro nazioni vessate per raccontarl­e nel loro periodo più cupo, consapevol­i che il nuovo virus è pericoloso, ma il silenzio è da sempre mortale.

IN TURCHIA Centinaia di persone fermate per aver pubblicato sui social “commenti provocator­i” riguardant­i la lotta al Covid-19

IL “RECINTO” L’Iran ha vietato la stampa dei quotidiani. Giordania, Oman, Marocco, Yemen limitano la libertà di cronaca

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LaPresse, Ansa Vento autoritari­o Sopra, il premier turco Erdogan col ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu A sinistra, il presidente venezuelan­o Nicolas Maduro
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