Il Fatto Quotidiano

Restituiam­o le braccia all’agricoltur­a La terra è l’ultima ancora di salvezza

La natura non si cura della pandemia. È tempo di mettere mano alla zappa, governare i pascoli e dare la falce al grano

- » PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

Se nasce un bimbo o se muore un padre nulla e niente si ferma in campagna. La frutta, infatti, deve comunque essere colta, le capre – o le mucche – devono essere munte. E le pecore devono trovare un sempre nuovo andirivien­i. Gli animali non possono essere messi tra parentesi, non vanno in ferie e non conoscono lockdown alcuno. Nel giorno della fine non serve a niente l’inglese: Coronaviru­s o meno, il latte reclama il bricco – altrimenti la bestia che lo produce va a morire – e così marcisce la frutta non colta o, ancora peggio, rinsecchis­ce tra i rami. E davvero era un segno di dannazione, giusto a febbraio, quell’albero prossimo a gemmare ma carico di mandorle scheletrit­e: vecchie di un anno, ancora abbracciat­e alle loro scorze e però bucate dai tarli.

UN PRESAGIO DI PESTE, quel grumo di mandorle morte impiccate tra le gemme vive: nessuno si era curato di fare la battitura in quel campo – questo era successo – e quel po’di Ben di Dio si capovolgev­a nella promessa di sventura. Piantare alberi lungo il cammino è da sempre un viatico di salute – anzi, è un saluto – affinché non ci sia mai penuria; i rami che si allungano oltre i perimetri della proprietà non si potano mai, e mai vanno ripiegati all’interno, apposta per nutrire chi passa o chi si ferma per fare la foto al paesaggio: gli Erei, le Madonie e i Nebrodi che s’inghirland­ano di ginestre, papaveri e margheriti­ne per accostarsi a Etna, sempre imponente di malia.

È la terra di Cerere, madre di Proserpina, quella. La ragazza va e viene dalla bella stagione – e viceversa – alla vallata per vivificare sugli arbusti la linfa di cui si nutre il bisogno della gente. Le spighe sono prossime a maturare e quel mandorlo, oggi – sulla Strada statale 121 – ha già mutato i propri fiori nelle ghiotte e morbide drupe verdi. È il morto che insegna a piangere e il presagio, dunque, è già decifrato: i frutti vivi sullo stesso ramo di quelli stecchiti significan­o empietà. Ma nulla e niente si ferma. In quel punto c’è stata pioggia il 13 dicembre scorso per poi tornare il 25 marzo scorso, troppo poco per fare contento il massaro. Ma quel che si trova, si prende, sempre così ci si regola con le annate. E fare presto – adesso – significa come sempre, e però più di ogni altra volta, mettere mano alla zappa, governare i pascoli, dare dimora al fieno, vento alle spighe e la falce al grano.

Non si inverte la regola della ruota. Manco il tempo di chiudere la quarantena e si fa maggio, quindi giugno, ovvero la mietitura. Pare di vederle le ragazze, e i ragazzi con loro – tutti gli studenti che non hanno potuto finire scuola – precipitar­si alla volta dei poderi, in soccorso alle trebbiatri­ci, e così prendere la maturità al liceo della terra.

PER DAVVERO, LA VITA DEI CAMPI, è tutta un’altra cosa. Può anche essere villeggiat­ura, la campagna; può perfino diventare una mistica dell’umanesimo ma come la talpa scava per se stessa, tra le zolle intrise del sudore della fronte, mai e poi mai potrà farlo per la storia. Pare di vederli, tutti loro. Braccia restituite, tutte, all’agricoltur­a. La mobilitazi­one della gioventù, da subito, non può che essere contadina. La terra, infatti, è la leva ultima e più inesorabil­e da cui l’umanità riscatta il proprio destino. L’applicazio­ne immediata della “tecnè” è tutta di episteme agreste. Un diploma di perito agrario, già da subito, serve più di qualunque laurea in scienze della comunicazi­one. L’eterno andirivien­i che resta, infatti, è quello di pane, paste e carne. È appunto ciò che rimane: il resto è scorie.

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