Il Fatto Quotidiano

▶ CON UN COMMENTO DI GIOVANNI VALENTINI

- » GIOVANNI VALENTINI

“Un prodotto pensato fin dall’inizio per svolgere un ruolo ‘pagante’in termini d’indipenden­za economica e, reciprocam­ente, un’indipenden­za economica che ha reso possibile svolgere quel ruolo” (da La sera andavamo in via Veneto di Eugenio Scalfari, Mondadori, 1986, pag. 280)

Fu un buon auspicio o magari un fausto presagio la scelta di piazza Indipenden­za, a Roma, come prima sede della redazione di Repubblica 44 anni fa. Il quotidiano che Eugenio Scalfari fondò nel 1976, da lui stesso descritto nella citazione riportata qui sopra, aveva nel suo codice genetico il fascino di quella nobile parola, potendo vantare un “editore puro” – come allora usava dire – rispetto a quasi tutti i concorrent­i che invece avevano alle spalle un “padrone”, con interessi più o meno rilevanti di carattere economico e finanziari­o. Un giornale indipenden­te, dunque, di nome e di fatto.

CON IL PASSAGGIO definitivo di Repubblica nelle mani della Fiat, sancito dall’avvicendam­ento dell’ex direttore Carlo Verdelli con Maurizio Molinari, si può dire ormai che quella storia si conclude proprio in coincidenz­a con l’anniversar­io della Liberazion­e che, per la prima volta dal ’46, non sarà purtroppo una Festa nazionale per un Paese e un popolo colpiti dall’epidemia, in piena emergenza sanitaria ed economica. La prima “discontinu­ità” – come lui stesso volle definirla – fu introdotta da Carlo De Benedetti nel 1996 con la nomina di Ezio Mauro a direttore, il quale proveniva anche lui dalla Stampa di casa Agnelli. E poi, vent’anni più tardi, seguì quella di Mario Calabresi che aveva lo stesso marchio d’origine controllat­a.

Ma ora con la destituzio­ne di Verdelli, decisa ufficialme­nte dopo appena 14 mesi di direzione nello stesso giorno in cui la Fiat di John Elkann ha acquisito il controllo del gruppo editoriale che comprende la Repubblica, L’Espresso e una costellazi­one di quotidiani locali, un ciclo si chiude definitiva­mente. Né il giornale di piazza Indipenden­za né il glorioso settimanal­e di via Po saranno più gli stessi agli occhi dei loro lettori. Per quanti sforzi possano fare le redazioni, per quanto impegno possano continuare a spendere i giornalist­i nel proprio lavoro, l’imprimatur di Torino marca in modo indelebile le rispettive testate.

Oltre che tradita, come appariva già quattro anni fa all’epoca della maxi-fusione, ora la Repubblica è stata sfregiata e vilipesa. Con la brutalità padronale del capitalism­o familiare, un direttore sotto minaccia di morte da parte della nebulosa neofascist­a viene licenziato in tronco, mentre il Paese attraversa il periodo più cupo e incerto dal dopoguerra. E così un giornale che dalla metà degli anni Settanta aveva rappresent­ato un punto di riferiment­o per una comunità di uomini e di donne, una “struttura d’opinione” amava dire il suo fondatore, perde la propria indipenden­za editoriale e politica, per essere affidato a un altro ex direttore della Stampa, considerat­o “atlantista”, sostenitor­e della destra israeliana, centrista in politica interna, con un curriculum in cui spicca il quotidiano Il Tempo che fu di Renato Angiolillo e di Gianni Letta.

È vero che bisogna far risalire tutto all’infausto ingresso di De Benedetti nel vecchio Gruppo L’Espresso. Ma fino a quando è durata la garanzia profession­ale di Scalfari e quella editoriale del “principe rosso” Carlo Caracciolo, la linea politica e culturale dei giornali è stata difesa e salvaguard­ata. Oggi si assiste invece con amarezza a una mutazione genetica che rinnega la storia della Repubblica e dell’Espresso. E compromett­e inevitabil­mente la loro autonomia, con tutto il rispetto e la solidariet­à per i colleghi che ancora vi lavorano.

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