I CAPI POPULISTI ODIANO IL POPOLO
Scoperto il bluff Trump, Bolsonaro, Putin e, in Italia, Salvini: la loro propaganda mette a rischio la gente che dicono di difendere
Non
bastando il Covid-19 a soffocare il respiro dei popoli, ci si sono messi i populisti a peggiorare l’assedio. A cominciare da quelli che strillano di più, in piedi sul primo banco, Donald Trump, Jair Bolsonaro, Vladimir Putin. Oltre al nostro sudatissimo Matteo Salvini, che s’affatica ogni notte alla disperata ricerca di un appiglio per rallentare la caduta, fosse anche birra, una fidanzata, un rosario.
AL NETTO della confusione con cui è iniziata la Fase Due di questa tragica disavventura planetaria, sono proprio loro, gli eroi della nuova destra sovranista, gli autocrati avvolti nelle rispettive bandiere nazionali e la mano sul cuore, ad avere fallito nei rimedi, rivelando la loro clamorosa incompetenza a gestire situazioni complesse. E sempre lasciandosi stordire dagli eventi, prima chiudendo gli occhi davanti alla realtà, Trump: “L’America non è fatta per chiudersi in casa!”; Bolsonaro: “Siamo più forti di ogni febbriciattola!”; Putin: “La Russia non ha nulla da temere!”;; Salvini: “Apriamo tutto, siamo liberi di lavorare, guadagnare, vivere!”. Poi invocando il suo contrario, porte e finestre chiuse e naturalmente muri per fermare “il virus straniero”, l’intruso. Così ossessionati dalla xenofobia da indirizzarla anche all’infinitamente piccolo delle particelle subcellulari che viaggiano nell’aria. In un delirio di sciocchezze antiscientifiche, arrivate sino al vertice delle iniezioni di candeggina per ripulirsi i polmoni, concepite (ma per il nostro buon umore non sperimentate) da quel povero milionario di Trump in una pausa riflessiva, lontano dai suoi campi da golf. La verità è che sono proprio i populisti a disprezzare i popoli. E in fondo a detestarli. Non solo quelli che abitano al di là dei confini, tutti nemici potenziali.
MA ANCHE I PROPRI, quelli che ogni giorno ricoprono di elogi e di promesse, che rassicurano di magnifiche e progressive sorti, che fomentano di rancori, srotolando il filo spinato lungo i sacri confini, spingendoli a rivendicare radici identitarie memorabili, irripetibili, compreso il proprio dio (“L’unico, vero Dio!”) che li ha scelti in via esclusiva, in ragione dell’intero campionario che sempre segue: la forza, l’audacia, l’ammirevole grandezza della propria
La dura realtà
L’emergenza sanitaria non sa che farsene di finti nemici da additare: i morti veri hanno inceppato la macchina teatrale
storia. E’ in quella retorica la radice dell’inganno verso i propri popoli trattati come ingredienti passivi della propaganda. Che è poi la sola parte solida della loro proposta politica, sempre destinata a polverizzarsi davanti alla complessità dei problemi. I quali non sono mai generati dalle infinite variabili della realtà da analizzare con lentezza, con competenza, ma sempre da nemici in carne e ossa, identificati dopo un’alzata di spalle e visibili in fondo al mirino: i banchieri, le lobby radicali, i fautori della globalizzazione, gli intellettuali, i neri troppo poveri, i cinesi troppo potenti, gli arabi troppo terroristi, e naturalmente gli immigrati, tutti invasori, tutti criminali o quasi, secondo la dottrina Trump che non smette di autoproclamarsi “il più grande presidente mai creato da Dio”.
Peccato che stavolta l’emergenza sanitaria non sappia che farsene dei nemici da additare, dei capri espiatori da sacrificare in pubblico. I morti veri, la paura collettiva, il destino comune di uomini e donne, hanno inceppato la macchina teatrale della loro rumorosa propaganda. I retori del nulla sono rimasti soli sulla scena, con le mani in tasca, la testa confusa, i disoccupati che salgono, i sondaggi che scendono. Mentre le nostre vecchie, imprecise democrazie, magari in ordine sparso, hanno elaborato strategie di attacco al virus e di difesa alla salute pubblica, hanno imposto decisioni anche impopolari, affidandosi ai medici, agli scienziati, alla responsabilità collettiva dei rispettivi popoli, protagonisti e non spettatori. Che è proprio quello che dovrebbe sempre fare la politica: disegnare mappe coi cartografi, poi scegliere una strada collettiva, mettersi in viaggio. Senza promettere le fanfare e il paradiso, ma solo la prossima sponda della storia.