Silvia ora si chiama Aisha Il giallo della conversione
Prime parole: “Non ho subìto violenze, ora voglio una famiglia e dei figli”
■A Ciampino la accolgono Conte e Di Maio. L’abbraccio ai genitori, poi la lunga testimonianza ai pm: smentite le nozze forzate con un carceriere. Le traversate a piedi nella foresta da covo a covo, i 2 contagi di malaria, la scelta “autoprotettiva” dell’Islam. E la liberazione, fra i razzi della guerra civile somala. Solite polemiche di Salvini&social sul riscatto
La malaria contratta due volte, gli spostamenti a piedi tra Kenya e Somalia e “Aisha” come nome scelto da prigioniera. Sono i dettagli dei 536 giorni del rapimento di Silvia Romano, la volontaria milanese liberata 48 ore fa. Ieri alle 14 è atterrata all’aeroporto di Ciampino con un volo militare diretto da Mogadiscio, capitale della Somalia. Ad accoglierla, oltre la sua famiglia, il premier Giuseppe Conte e il ministro Luigi Di Maio: la Farnesina infatti in questi mesi non ha mai smesso di occuparsi del caso e il capo dell’Unità di crisi, Stefano Verrecchia, è rimasto sempre in contatto con il padre della ragazza.
Quando arriva in Italia Silvia è sorridente, ha guanti e mascherina e indossa un “jilbab”, un abito tradizionale somalo di uso comune in ambienti dove è diffusa la fede islamica. Finalmente abbraccia i genitori e la sorella. “Sto bene fisicamente e mentalmente”, ripete.
Gli agenti: “Conversione autoprotettiva”
Prima di tornare a casa però viene interrogata dal pm romano Sergio Colaiocco. Davanti al magistrato parla anche della propria conversione all’Islam: a metà prigionia, avrebbe raccontato, ha chiesto di leggere il Corano, e da lì è partita una lenta conversione. Una scelta che definisce volontaria, non forzata, ma smentisce di aver sposato uno dei suoi rapitori. Proprio su questo si concentra la prima perizia psicologica: qui si parla di una conversione “autoprotettiva”, necessaria nella consapevolezza che l’alternativa sarebbe stata quella di essere trasformata in una schiava sessuale. Insomma, la sua, secondo fonti investigative, potrebbe essere una scelta frutto “della condizione psicologica in cui si è trovata durante il rapimento”. Ma Silvia, a chi ha avuto i primi contatti con lei dopo la liberazione, ha rivelato anche un suo desiderio: quello di trovare un compagno e diventare madre.
Intanto durante l’interrogatorio la giovane ripercorre l’agonia di un anno e mezzo di prigionia, a partire dal 20 novembre del 2018 quando è stata rapita in un villaggio a 80 chilometri da Malindi, dove si trovava per la onlus Africa Milele. Da una banda di criminali all’altra, i suoi ultimi sequestratori fanno parte del gruppo jihadista Al- Shabaab, un’organizzazione somala affiliata ai terroristi di al Qaeda, che ha consegnato Silvia a un contatto locale individuato dall’Aise del generale Luciano Carta, l’agenzia per i servizi segreti esteri.
Interrogata ieri
Il Corano richiesto a metà prigionia Lei: “Adesso sogno di avere dei figli”
Curata dai suoi rapitori “Mai violentata”
Durante la prigionia la giovane avrebbe scelto come nome “Aisha”. Non è stata nè violentata né picchiata, dice a chi l’ha incontrata dopo la liberazione. Ma in questo anno e mezzo ci sono stati momenti duri: come quando per due volte ha contratto la malaria, ma è stata curata dai carcerieri, sempre con il volto coperto. In 18 mesi ha cambiato più covi e più aguzzini, che in diverse occasioni hanno cercato di vendere soffiate fasulle, a cui l’Aise non ha abboccato. Ci sono state poi lunghe traversate a piedi, dal Kenya alla Somalia. Ed è proprio durante uno di questi spostamenti che gli uomini dell’intelligence italiana si sono messi sulle sue tracce. Fino a venerdì notte quando è arrivata la liberazione a una trentina di chilometri da Mogadiscio: un rilascio dietro pagamento di un riscatto. Su quanto abbia pagato l’Italia c’è il massimo riserbo, anche se si parla di una cifra tra i due e i 4 milioni.
Il papà a Di Maio: “Non riesco a piangere”
Una volta libera, prima di portarla in ambasciata italiana, gli agenti hanno trasferita la giovane in luogo sicuro delle Nazioni Unite, un compound, all’esterno del quale a un certo punto è avvenuta pure una sparatoria tra gruppi locali. Qui Silvia ha chiamato per la prima volta la madre.
Il papà poi ha contattato Di Maio per ringraziarlo: “Non riesco neanche a piang e r e”, ha detto al ministro. Di Maio era stato informato della liberazione subito dopo il premier Conte, contrariamente a certe indiscrezioni.
Il ruolo dei servizi e il prezzo del riscatto
Tutta l’operazione quindi è stata portata avanti dai servizi di intelligence italiana in collaborazione con i colleghi turchi (frutto dei rapporti tra le strutture diplomatiche dei due Paesi), ben radicati in Kenya e in Somalia. La svolta sarebbe arrivata già a novembre, quando la giovane è stata rintracciata. Un filmato, proprio da Al-Shabaab, è stata la prova che fosse viva.
Ieri Silvia è ritornata a casa. Ora può finalmente riprendersi la sua vita e magari coronare il suo sogno: diventare mamma.