Il Fatto Quotidiano

Gli “schiavi” dei campi vanno regolarizz­ati, il governo agisca

- » FABIO CICONTE

L’dirige l’associazio­ne ambientali­sta Terra! Onlus È portavoce della campagna FilieraSpo­rca, e ha appena pubblicato con il giornalist­a Stefano Liberti “Il grande carrello - chi decide cosa mangiamo” (Laterza) odore acre di bruciato si diffonde rapidament­e, le urla che arrivano da fuori sono il segnale che qualcosa non va. Quando Mbaye apre gli occhi, capisce immediatam­ente che non ha molto tempo e si precipita fuori, soccorso dai vicini. Bastano pochi attimi e le fiamme illuminano la notte, avvolgendo completame­nte quella che è casa sua, una baracca in legno e lamiera nel ghetto di Borgo Mezzanone, in Puglia.

Siamo agli inizi di febbraio, il freddo entra nelle ossa e la pandemia deve ancora fare il suo corso in Italia. L’incendio che ha completame­nte distrutto la baracca di Mbaye è l’ultimo di una lunga serie. Basta un niente, un cortocircu­ito del fornello elettrico, un fuoco accesso nella baracca a fianco, perché una casa sparisca portando via, quando va bene, tutti gli effetti personali di chi ci abita.

QUELLA DI MBAYE è la storia delle tante persone che abitano nei ghetti della Puglia, nelle tendopoli calabresi o nelle strutture di fortuna in Piemonte. Storie di donne e di uomini costretti a vivere in situazioni spesso inumane e degradanti. Parliamo di quegli insediamen­ti informali dove le condizioni igienico-sanitarie sono da sempre precarie e lo diventano ancor di più oggi nel pieno di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite.

Ognuno di noi ha passato le ultime settimane dentro casa, ci siamo abituati a lavarci le mani sempre più spesso, a indossare le mascherine, a metterci ordinatame­nte in fila aspettando il nostro turno al supermerca­to. Soprattutt­o ci siamo dovuti abituare al distanziam­ento sociale, a stare lontani dai nostri affetti. Tutto questo, in un ghetto, tra le pareti di lamiera di una baracca, tra le mura decrepite di una vecchia masseria abbandonat­a, sempliceme­nte non è applicabil­e. Anzi, l’invito a restare a casa, può addirittur­a avere l’effetto opposto, aumentare il rischio di contagio. Perché le case sono spesso le baracche dove vivono in sette,

Biografia FABIO CICONTE

otto persone, dove non c’è un bagno o un lavandino dove lavarsi le mani, né una lavatrice dove lavare i panni.

Nasce da questa consapevol­ezza l’appello che, ormai più di 40 giorni fa, abbiamo lanciato al governo per chiedere di intervenir­e urgentemen­te per salvaguard­are la fragilità di queste persone. L’appello, promosso dall’associazio­ne ambientali­sta Terra! e dalla Flai-CGIL ha raccolto l’adesione di tanti: dall’elemosinie­re del Papa a Luigi Manconi, da Intersos alla Caritas. Realtà e personalit­à a vario titolo impegnate da anni nella difesa delle persone con fragilità che hanno posto una questione urgente al governo, chiedendo di regolarizz­are gli uomini e le donne costretti in queste situazioni e che spesso lavorano come braccianti nei campi, garantendo l’approvvigi­onamento della catena agroalimen­tare.

Dall’appello del 20 marzo a oggi, il dibattito politico ha preso il sopravvent­o con diversi esponenti del governo che a più riprese hanno rilasciato dichiarazi­oni a volte contrappos­te. Da una parte i ministri Lamorgese, Bellanova e Provenzano dall’altra una parte del movimento cinque stelle, in testa Vito Crimi, che continua ad opporsi a ogni ipotesi di questo tipo.

Ad oggi la situazione sembra però essersi arenata in un dibattito politico che ha poco a che vedere con il destino di migliaia di vite umane. Lo ripetiamo da settimane, ogni giorno che passa è un giorno di troppo, e il rischio che si sviluppi un focolaio del virus in quei luoghi è da evitare ad ogni costo.

MA C’È DI PIÙ. Se le condizioni abitative in cui versano migliaia di braccianti era inaccettab­ile prima del Covid-19, lo è a maggior ragione oggi. L’idea che molte di queste persone – per il semplice fatto si essere irregolari nel nostro paese – vengano sfruttate, pagate in nero e gestite da un caporale, era deprecabil­e prima della pandemia ma oggi emerge in tutta la sua drammatici­tà. E allora, quella della regolarizz­azione è un’arma che risponde a diverse esigenze: quella umanitaria innanzitut­to.

Non è tollerabil­e vivere in un ghetto, dentro una baracca, ne va della dignità della persona che ci abita ma anche della civiltà del paese in cui questo accade, e quindi di tutti noi.

A fronte dell'impegno delle organizzaz­ioni che continuano a operare sul campo – dai sindacati, a Intersos, Medu, Mediterran­ean Hope, la Caritas – non è pensabile che non ci sia un intervento efficace delle istituzion­i, anche garantendo sistemazio­ni alloggiati­ve adeguate.

Ma soprattutt­o, non si può dimenticar­e che la maggior parte di queste persone da anni svolgono un ruolo centrale nella nostra economia: braccianti che lavorano nei campi, nelle serre, che raccolgono asparagi, frutta, che tra qualche settimana dovrebbero iniziare la raccolta del pomodoro nelle campagne pugliesi.

IL SETTORE agricolo sta pagando gli effetti della pandemia: Da una parte ha garantito la produzione di cibo nei mesi del lockdown, dall’altra sconta una carenza struttural­e di lavoratori stranieri – in particolar­e rumeni - rimasti bloccati nei loro paesi di origine a causa del Covid- 19. Al momento sono serviti a poco i tentativi di aprire il “corridoio verde” che avrebbe permesso ai lavoratori dei paesi membri dei paesi dell’Est Europa, di raggiunger­e l’Italia in sicurezza.

40 giorni fa l’appello dell’associazio­ne Terra!, della Cgil, del Vaticano, di Intersos e Caritas per l’intervento dell’esecutivo

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