Scoprì le fosse di Stalin: ora marcisce in carcere
Nei gelidi boschi della Karelia, al confine con la Finlandia: le memorie più oscure della Russia sono state nascoste dove il mondo appare più candido. Dove bianca è la neve, bianchi i tronchi di betulla, bianco il cielo ci sono migliaia di fantasmi: quelli delle vittime dimenticate del regime sovietico. Sotto la terra innevata dell'nord-ovest sono stati seppelliti quasi 10mila cadaveri nelle fosse comuni. Lo storico Yuri Dimitrev li ha ritrovati e, un teschio dopo l'altro, dopo decenni di ricerche e lavoro, ha risposto al richiamo di quelle ombre, dandogli nome e cognome. Ora la Russia ha chiuso nel ventre delle sue celle il custode di quella scoperta.
UN TENACE archeologo di ossa e dolore. Dimitrev ha cominciato negli anni Ottanta a ricostruire le biografie dei prigionieri dei campi di lavori forzati, ha compilato martirologi, archivi di informazioni e documenti. Si è spinto nei decenni sempre più oltre, cercando sulle mappe i luoghi di sepoltura delle vittime dei gulag insieme ai membri del Memorial, organizzazione per i diritti umani vessata dalle autorità di Mosca. Nel 1997 ha scoperto Sandarmoch, un buco nero della storia nascosto nella foresta bianca, una fossa comune di circa settemila vittime fucilate cinquant'anni prima dagli uomini del regime di Stalin. Nei boschi in cui lei vite dei cari si sono spezzate, negli anni, i parenti hanno cominciato a riunirsi sempre nello stesso giorno, il 5 agosto, data in cui nel 1937 cominciò la repressione filospinata e mortale dei soviet. Sandarmoch è diventato un “cimitero pubblico”, non riconosciuto ufficialmente dalle autorità, dove le foglie delle betulle bevono lacrime di tristezza dei parenti ogni estate.
Poi è stato Dimitrev a diventare un pr o to k o l( p r ot ocollo) dello Stato, non di quello dell'Unione Sovietica che investigava, ma del Cremlino del presente: lo storico è stato trascinato in tribunale, trafitto dall'onta più vergognosa. È stato accusato di “produzione di materiale pedopornografico”. L'alibi per perseguirlo dalle istituzioni è stato trovato in un mazzo digitale di nove fotografie: quelle che Dimitrev ha scattato alla sua figlia adottiva per documentare la pesante malnutrizione subita in orfanotrofio.
Ha affrontato un processo farsa dopo l'altro, fino alle sbarre del centro di detenzione di Petrozavodsk. Già arrestato nel dicembre 2016 e poi assolto due anni dopo con formula piena per numerose testimonianze di esperti in suo favore, Dimitrev è finito di nuovo nel mirino della Corte Suprema della sua Karelia natia, che ha annullato il primo verdetto e dato avvio ad un secondo processo nel 2018. Nelle celle russe, promiscue di miseria e ora anche di Covid-19, ha compiuto adesso 64 anni. Implacabile contro di lui, già debilitato, la pialla repressiva della Corte russa è tornata a pronunciarsi pochi giorni fa, chiosando un nuovo netper( no) gli arresti domiciliari richiesti dal suo avvocato, a causa dell'alto rischio di contrarre il virus in cella.
COME ALL'INIZIO del secolo scorso, oggi un'altra vo in a, guerra è in corso: quella della memoria. A chiamarla così è Andrea Gullotta, docente all'Università di Glasgow, autore di un libro e decine di articoli sul gulag sovietico: “La guerra della memoria è combattuta prevalentemente all'interno della Russia, vede da un lato istituzioni statali e religiose, dall'altro Ong, associazioni e singoli ricercatori. La memoria del gulag è un trauma profondo nato da atti efferati, perpetrato in vasta parte da cittadini sovietici contro cittadini sovietici”. Autore di una petizione per la liberazione dello storico, firmata da oltre 300 attivisti, accademici e dal premio Nobel per la letteratura J.M.Coetzee, Gullotta spiega: “Le istituzioni stanno cercando di “invadere” lo spazio del racconto della storia, sottraendolo a ricercatori indipendenti, parallelamente al tentativo di liberarsene. Mentre Dmitriev veniva ingiustamente detenuto, l'esercito scavava le fosse comuni di Sandormoch per cambiare i connotati ai cadaveri”.
TRA QUEI BOSCHI remoti ora la Federazione combatte la battaglia del ricordo e del passato, con un gioco di sponda tra oblio e propaganda: per addossare i crimini ad un aggressore sempre straniero, le mimetiche di Mosca hanno tentato di provare che quei corpi fossero non di innocenti ammazzati dai sovietici, ma di soldati dell'Armata Rossa uccisi dall'esercito finlandese durante la Seconda Guerra Mondiale.
Mentre la narrazione statale, ibrida come le sue ultime guerre, continua a dominare, rimane la storia di uomini morti sotto terra e uomini ancora in piedi sopra di essa che tentano di raccontarla. Tra loro c'è Dimitrev, che ha provato a contrastare il silenzio di chi ha taciuto la verità, quella che se definitivamente perduta, rende fantasmi anche i vivi.
UNA VITA NEL MIRINO
Ha affrontato un processo farsa dopo l’altro, fino alle sbarre del centro di detenzione di Petrozavodsk