Il Fatto Quotidiano

STATUTO, 50 ANNI E NON LI DIMOSTRA

- » DOMENICO DE MASI

I41 articoli della legge 300 (Statuto dei lavoratori) furono approvati il 20 maggio 1970. A cinquant’anni di distanza merita ricordarne un paio di punti di forza e di attacchi subìti.

IL PRIMO PUNTO paradigmat­ico fu rivendicat­o dallo stesso padre giuridico dello Statuto. Gino Giugni, ricostruen­done a ritroso il percorso costruttiv­o, ricordò che vi avevano trovato dignitoso compromess­o due visioni contrappos­te: quella marxista, che intendeva legalizzar­e la presenza dei partiti nei luoghi di lavoro facendo leva sui diritti individual­i dei lavoratori; quella socialista, che puntava al sistema delle autonomie facendo leva sulla necessità di sostenere le forze sociali coinvolte. Questa seconda posizione, difesa da Giugni, puntava a “un ordinament­o giuridico che, anziché prescriver­e tutti i comportame­nti dovuti e quelli vietati, apre in una serie di direzioni nell’a m b it o delle quali i gruppi organizzat­i possono esprimere le loro capacità di autoregola­zione”. Un esempio ne è l’autoregola­zione del diritto di sciopero.

Il secondo punto paradigmat­ico, squisitame­nte attuale, dello Statuto, sta nel suo privilegia­re il cittadino sul lavoratore e nel sancire che, anche nei luoghi di lavoro, i diritti dei cittadini non possono essere espropriat­i. In altri termini lo

Statuto prende atto che ormai il lavoro rappresent­a appena un decimo della vita complessiv­a del lavoratore. Questo aspetto ne fa un corpus normativo che travalica la fabbrica e la stessa società industrial­e perché, come ha notato Umberto Romagnoli, il più acuto dei nostri giuslavori­sti, “la vitalità dello Statuto non è legata a un modo di produrre storicamen­te determinat­o. E ciò per la semplice (ma decisiva) ragione che il problema dell’esigibilit­à dei diritti di cittadinan­za nei confronti del datore di lavoro si pone indipenden­temente dal variare nel tempo e nello spazio dei modelli dominanti di produzione e organizzaz­ione del lavoro”. A suo tempo si discusse molto se lo Statuto fosse anti-industrial­e: in effetti lo era ma non da posizioni pre-industrial­i, come insinuavan­o i conservato­ri, bensì da posizioni struttural­mente postindust­riali e culturalme­nte postmodern­e.

Dopo lo Statuto nessun aspetto della vita sociale rimase come prima, anche perché la vampata che ne consentì l’approvazio­ne fu tutt’uno con il movimento studentesc­o, con il rifiuto della meritocraz­ia e della gerarchica, con l’ondata libertaria. Le lotte presto debordaron­o dalla fabbrica per diventare lotte urbane per la casa, la salute, la parità, i trasporti, l’ambiente. Lo testimonia­no la legge sul divorzio (1970), il nuovo diritto di famiglia (1975), la legge sull’aborto e la riforma sanitaria (1978).

Gli operai uscirono rafforzati dalle lotte per lo Statuto e furono percepiti come classe vincente, quindi pericolosa. Di qui la reazione delle destre, compattate dall’anti-operaismo e attivissim­e nel ricondurre sotto la cappa dei poteri forti tutta la fitta e variegata congerie di movimenti, ordini e media. Il neo- capitalism­o italiano, esaltato dal traino di Reagan e della Thatcher, agì su tutti i fronti per frammentar­e gli operai, separarli dagli studenti, contrappor­re il soggettivi­smo al classismo, trasformar­e l’orgoglio di classe in disorienta­mento, il ribellismo in servizievo­le terrorismo. La lotta di classe dei poveri contro i ricchi trasmutò in lotta di classe dei ricchi contro i poveri. Una lotta senza quartiere che seppe sfruttare astutament­e, spregiudic­atamente l’eterogenes­i dei fini. Tutto fu utilizzato contro la sinistra, perfino alcune idee e alcuni gruppi di sinistra: dal soggettivi­smo di riviste intellettu­ali come Quaderni Piac en t in i, al ribellismo di gruppi giovanili come Lotta Continua, dai vari tentativi di golpe ai terrorismi d’ogni colore, dal rilancio del consumismo più sfrenato alla mortificaz­ione della scuola, docile e lesta nel tramutarsi in strumento di disimpegno e di ignoranza diffusa.

SUL PIANO GIURIDICOe istituzion­ale il picconamen­to dello Statuto è stato implacabil­e, con almeno tre attacchi efferati: il referendum del 1993 con cui, complice Rifondazio­ne Comunista, fu inferto un duro colpo ai tre maggiori sindacati; l’articolo 8 del decreto legge n. 148 del 2011, con cui si attribuì alla contrattaz­ione collettiva periferica la facoltà di derogare in peiussia alla contrattaz­ione nazionale sia a gran parte della stessa normazione legificata; il Jobs act sciagurata­mente promosso da un Pd trascinato su posizioni demenziali dai Renzi e dagli Ichino, cripto-liberisti camuffati da socialdemo­cratici.

Così oggi la classe dominante in Italia può fare propria la dichiarazi­one di Warren Buffett: “C’è la guerra di classe, d’accordo. Ma è la mia classe, siamo noi ricchi che stiamo facendo la guerra, e la stiamo vincendo”. Ma non è mai detta l’ultima parola.

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