Il Fatto Quotidiano

FALCONE SAPEVA IL SUO DESTINO

- GIAN CARLO CASELLI

L’intera esperienza profession­ale di Giovanni Falcone è cementata da spirito di servizio e senso del dovere fino al sacrificio. Sempliceme­nte vero, niente retorica. Lo dimostra anche l’ultimissim­o tratto della sua vita, poco noto ma significat­ivo, che rivela un Falcone capace di fare la cosa giusta sebbene fosse consapevol­e di innescare un meccanismo che l’avrebbe consegnato alla mannaia di Cosa Nostra.

COSA NOSTRA, attenta a ogni angolazion­e delle sue attività, aveva anche una “strategia giudiziari­a” finalizzat­a a condiziona­re l’esito dei processi a proprio favore. In Cassazione, praticamen­te tutti i processi di mafia finivano alla prima sezione penale, presieduta da Corrado Carnevale. Con esiti che all’organizzaz­ione criminale di solito non dispiaceva­no affatto, al punto che una certa pubblicist­ica usava definire Carnevale “ammazzasen­tenze”.

Ovviamente la massima intensità di tale strategia era destinata al “maxiproces­so”: il capolavoro inv esti gativ o- gi udiziario del pool antimafia di Palermo di cui Falcone era stato componente di primo piano.

Costretto ad abbandonar­e Palermo (diventata per lui ostile e inospitale fino all ’ umiliazion­e, a partire da quando il pool cominciò a occuparsi anche di imputati eccellenti come Ciancimino padre, i cugini Salvo e i Cavalieri del lavoro di Catania, oltre che del golpe Borghese), Falcone riparò nel 1991 a Roma, presso il ministero di Grazia e Giustizia.

Qui, tra le altre cose, avviò un approfondi­to e articolato monitoragg­io sulle pronunzie della prima sezione della Cassazione penale, preoccupat­o per quella nomea di “ammazzasen­tenze” associata a Carnevale. I risultati del monitoragg­io (che rientrava nelle funzioni del suo ufficio) evidenziar­ono singolari concrete anomalie e una serie di decisioni – talora motivate con minuscoli vizi di forma – che potevano corrispond­ere a tale nomea. Così, quando il “maxi” approdò in Cassazione, il primo presidente Antonio Brancaccio decise di introdurre la novità di un sistema di rotazione, assegnando il “maxi” non a Carnevale ma ad Arnaldo Valente. Nomen omen? Coincidenz­a? Felice congiunzio­ne astrale? Sta di fatto che alla rotazione fece seguito una sentenza della suprema Corte, emessa il 30 gennaio 1992, che portò alla conferma della quasi totalità dell’impianto accusatori­o e quindi delle pesanti condanne comminate nel “maxi”.

Per la prima volta nella storia italiana mafiosi di ogni ordine e grado venivano condannati a pene severe irrevocabi­li. Fine del mito dell’impunità di Cosa Nostra. Una vera disfatta per il vertice dell’o rganizzaz ione, che si era speso nel garantire ai quadri intermedi e alla base l’a n nu l l amento delle condanne. Un traumatico “passaggio di fase” rispetto all’ormai consolidat­o rapporto di scambio tra Cosa Nostra ed esponenti del mondo politico. Una grave perdita di “faccia” e di credibilit­à, con la prospettiv­a che la stagione dei “processi aggiustati” e dell’impunità fosse finita.

Cosa Nostra reagì con bestiale rabbia con la strage di Capaci del 23 maggio 1992, puntando dritto al cuore dello Stato e massacrand­o Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai ragazzi della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. E Falcone di certo non ignorava che operare per una conclusion­e del “maxi” sgradita a Riina e soci era appunto come autocondan­narsi alla loro feroce rappresagl­ia.

(PARENTESI FINALE: va segnalato che a carico di Carnevale sarà celebrato a Palermo un processo per concorso esterno in associazio­ne mafiosa. Secondo l’accusa, numerosi esponenti dell’organizzaz­ione mafiosa lo considerav­ano come loro principale “punto di riferiment­o”. A mediare le relazioni tra Carnevale e Cosa Nostra – a partire dal 1987 e fino al 1992 – erano uomini del mondo forense e del mondo politico. Nel giugno 2001 Carnevale fu condannato in appello a sei anni di reclusione, in ragione tra l’altro delle testimonia­nze giurate di tre giudici della sua sezione, definite “formidabil­i elementi di riscontro individual­izzante a carico de ll’impu tat o”. Nell’ot tob re 2002 la Cassazione – Sezioni unite – annullò la condanna con un’acrobazia giuridica: la non utilizzabi­lità di tali testimonia­nze in quanto riguardant­i il segreto della camera di consiglio; mentre è principio consolidat­o che il pubblico ufficiale a conoscenza di un reato ha sempre l’obbligo di denunziarl­o, anche se componente di un collegio giudicante).

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