Il Fatto Quotidiano

Tobagi mi disse: “Non voglio morire per questi qui...”

- MASSIMO FINI

Sono stato l’ultima persona a vedere in vitaWalter Tobagi, a parte la moglie Stella. Ci eravamo incrociati al Circolo della Stampa per un dibattito. Abitavamo vicini e poiché a Walter non piaceva guidare (di lui tutto si può dire tranne che fosse un uomo dinamico) l’accompagna­i in macchina a casa. Saranno state le due o le tre di notte, ma da quotidiani­sti incalliti non ci sembrava mai troppo tardi. Cadeva una pioggerell­ina leggera. Stavamo chiacchier­ando quando d’improvviso­Walter cambiò tono e mi disse che da un mese aveva abbandonat­o le inchieste sul terrorismo: “Sai, non voglio morire per questi qui” intendendo il direttore e il vicedirett­ore del Corriere . In quel momento pensai che eravamo folli a stare lì seduti in macchina davanti a casa sua, bersagli fissi, facili. Oltretutto i nostri nomi, il suo, il mio, quello di Abruzzo erano stati trovati in un covo di Prima Linea. Ebbi l’impulso di guardare fuori. Ma non lo feci, per non spaventarl­o e non spaventarm­i. Tornammo a parlare di cose normali. In quegli anni convulsi eravamo riusciti a strappare un’ora per portare i nostri figli allo zoo e c’eravamo divertiti moltissimo, forse più noi dei bambini. Ci ripromette­mmo quindi di ripetere appena possibile l’esperienza. Walter uscì dalla macchina. Lo vedo ancora armeggiare con le sue mani grassocce davanti al grande ed elegante portone di legno.

La mattina dopo, poco dopo le undici, mentre stavo dormendo perché ero in uno dei miei periodi di disoccupaz­ione, mi svegliò una telefonata del collega Venè. Poiché la mia voce era normale, tranquilla, si rese conto che c’era qualcosa che non quadrava: “Ma come non sai cos’è successo?”.“No”.“Hanno ucciso Walter”. Fu uno choc perché, con l’intervallo del sonno, per me era come se lo avessi lasciato da pochi minuti. Mi vestii in fretta e mi diressi verso la casa di Tobagi. C’era il solito canaio di giornalist­i, di fotografi, di curiosi. Notai due colleghi del Corriere , quelli che più di altri avevano creato un clima d’odio intorno a Tobagi, che piangevano senza ritegno e ostentavan­o gli occhi rossi. Io non piangevo. Mi districai da quella folla e salii in casa. Stella mi vide e si abbandonò piangente sulla mia spalla: “Tu… tu sei stato l’ultimo a vederlo”. Quello che successe nei giorni successivi avrei preferito dimenticar­lo. A cominciare dai funerali, in pompa magna, con Rolls-Royce, che erano esattament­e il contrario dello stile di Tobagi, che era un uomo schivo e pudico. C’era anche la Fallaci che non aveva mai conosciuto Tobagi (in quel periodo stava a New York) al braccio di Bruno Tassan Din. Voleva rubare il posto da protagonis­ta al morto. Ma non fu la sola. Incontrai casualment­e due importanti colleghi che, parlando della tragedia, mi dissero: “Puff, ma l’obiettivo non era Tobagi, il vero obiettivo ero io”.

Non ho conosciuto Tobagi all’Avanti!, quando io vi arrivai lui se ne era già andato all’Avvenire. Ci fece incontrare il capocronis­ta, Giorgio Giusti. Walter non era “il cronista buono” come volle poi l’ipocrita iconografi­a del Corriere , aveva anche lui i suoi bravi artigli (all’Avvenire aveva il soprannomi­gnolo di “viperotto” in contrappos­izione a un altro eccellente collega, Corrado Incerti, “la mangusta”) era un buon cronista e anche qualcosa di più, aveva quella profondità di analisi che lo avrebbe portato a essere, a soli 33 anni, un importante editoriali­sta del Corriere . Fra noi si diceva che “studiava da direttore”. E ci sarebbe arrivato se due ragazzi male educati, nel senso stretto del termine, cioè educati male dai loro padri, Morandini e Barbone, il primo figlio del critico cinematogr­afico de La Notte, il secondo funzionari­o della Rizzoli, non gli avessero troncato l’esistenza (“Quello fu un periodo – scrisse splendidam­ente Oreste Del Buono – in cui gli adulti non seppero fare gli adulti”). Con Walter ci incontramm­o quindi nei primissimi anni Settanta. La nostra amicizia si basava proprio sulla diversità dei nostri caratteri: riflessivo lui, impetuoso io. Benché fosse di tre anni più giovane aveva verso di me un atteggiame­nto protettivo, da fratello maggiore e saggio. A volte cercava di limitare le mie intemperan­ze, inoltre aveva intuito la mia natura più profonda e con affettuosa ironia mi chiamava “passato è bello”. Tobagi era molto più adulto della sua età.

Walter Tobagi è stato ucciso perché racchiudev­a in sé due importanti motivi simbolici: notista già prestigios­o del Corriere e presidente dell’Associazio­ne lombarda dei giornalist­i. E per questa sua carica e quindi, alla fine, della sua morte ho qualche responsabi­lità. Lo avevo convinto a rompere l’alleanza socialcomu­nista della Lombarda creando una nuova corrente. I nostri motivi più che politici erano profession­ali: volevamo togliere il sindacato ai sindacalis­ti di profession­e, che in realtà erano dei politici mascherati, per restituirl­o ai giornalist­i che facevano i giornalist­i, e sia Tobagi che io che Abruzzo lo eravamo. Si trattava di allearsi con i “fascisti” di Autonomia, in realtà dei normalissi­mi conservato­ri. In quegli annidi poco post sessantott­ini era una mossa rischiosa che ci avrebbe tirato addosso ogni sorta di accusa, a cominciare, naturalmen­te, da quella di essere dei “fascisti”. Tobagi, che era un uomo prudente, esitava. Esitava ancora la sera in cui decidemmo di sfiduciare il presidente della Lombarda, il socialista­Marino Fioramonti. Walter girava e rigirava fra le sue mani la mozione di sfiducia, ma non si decideva a presentarl­a. Gli strappai quasi di mano il foglietto e dissi: “Presidente, c’è una mozione di Tobagi e mia”. Si trattava ora di decidere chi avrebbe fatto il presidente della Lombarda. Walter voleva che fossi io, ma a parte che non ero assolutame­nte indicato per quel ruolo, non ne avevo nessuna voglia. Così toccò a lui. Negli ultimi tempi della sua breve vita Tobagi si estenuò quindi in quel doppio ruolo.

A Tobagi morto i socialisti di Craxi si appropriar­ono del suo cadavere, imitando quello che avevano fatto sempre i comunisti. Tobagi era certamente socialista (anzi un catto-socialista, animale piuttosto raro) ma da giornalist­a indipenden­te qual era non aveva alcun rapporto organico col Psi. Craxi cavalcò l’occasione per montare una campagna contro i comunisti, insinuando che i mandanti del suo omicidio erano due giornalist­i del Corriere . Cosa del tutto inverosimi­le. In regime di legislazio­ne premiale se Barbone e Morandini avessero avuto dei mandanti, per soprammerc­ato giornalist­i, avrebbero avuto tutto l’interesse a denunciarl­i invece di coprirli. Inoltre è vero che Fiengo and

company avevano montato una campagna d’odio contro Tobagi, e in misura minore contro di me, ma erano persone di così basso livello – io li conoscevo bene – che mai si sarebbero implicate, nemmeno indirettam­ente, in un omicidio. Il caso volle che a una commemoraz­ione di Tobagi al Circolo della Stampa io incrociass­i Bettino Craxi, che nel frattempo aveva avuto il modo di definirmi da New York “un giornalist­a ignobile che scrive cose ignobili” perché criticavo duramente la deriva presa dal craxismo, nella strettoia che portava fuori dal Circolo. “Sbagli a scrivere quello che scrivi”, mi disse Bettino. “No, siete voi a sbagliare”, replicai. La discussion­e continuò nel vasto androne del Circolo della Stampa. La schiera dei cortigiani stava a rispettosa distanza. Quando ci lasciammo passai davanti ai cortigiani e costoro, che da anni non mi salutavano, si prodigaron­o in attuzzi e moine nei miei confronti. Nella loro testa di servi avevano pensato che avessi riallaccia­to i rapporti col Capo.

40 ANNI FASono stato – a parte la moglie Stella – l’ultimo a vederlo vivo Le chiacchier­e, lo zoo e il sindacato. Le minacce di “Prima Linea”. Il clima d’odio contro di lui al “Corriere della Sera”. E la faccia di bronzo di Craxi

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 ??  ?? Insieme Walter Tobagi assieme a Massimo Fini durante un dibattito
Insieme Walter Tobagi assieme a Massimo Fini durante un dibattito
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