Il Fatto Quotidiano

Tobagi e i figli di papà

A sparare fu Marco Barbone, famiglia di dirigenti Rizzoli. Dalla Chiesa – che lo arrestò – lo aveva soprannomi­nato “piccolo Dio”. “Volevamo salire nella gerarchia ed entrare nelle Br”

- Corrias

C’erano lacrime e pioggia intorno al corpo di Walter Tobagi, steso obliquo sull’asfalto di via Salaino, le gambe giù dal marciapied­e, i pantaloni zuppi, il viso dentro una pozzangher­a che era per metà il suo sangue. Intorno a lui trenta persone almeno, gli ombrelli neri aperti le facce bianche e chiuse. Automobili dei carabinier­i e due ambulanze stavano parcheggia­te di traverso sulla strada a ostruire tutto il mondo di prima che alle 11.10 di quel mercoledì 28 maggio 1980, era inciampato sui cinque proiettili sparati in sequenza, nessuno scampo per la preda.

Abitavo a quattro isolati di distanza. Radio Popolare aveva appena dato la notizia. Sono arrivato a piedi, mentre ancora passavano le volanti a tutta velocità su via Solari e arrivava in frenata una Mercedes nera da cui stava scendendo Angelo Rizzoli, l’editore del Corriere della Sera , i fotografi scattavano con i flash per via dei nuvoloni neri e un paio di poliziotti dicevano permesso, permesso, fate passare.

Walter Tobagi, steso laggiù, aveva 33 anni, ma a noi giovani cronisti da battaglia sembrava molto più vecchio, era una delle prime firme del Corriere , aveva un viso e un portamento antichi, vestiva abiti scuri e cravatta, come già ai tempi del liceo Parini, consideran­do quel vestire una forma di rispetto per sé e per gli altri, proprio come quando scriveva estraendo dal disordine insanguina­to del terrorismo in corso, la limpidezza di una cronaca che non voleva mai stupire, ma raccontare, spiegando il baratro. Cosa che non era facile come dirlo, visto che in quegli anni furiosi almeno 90 gruppi armati inneggiava­no alla rivoluzion­e, dietro la coda insanguina­ta delle Brigate Rosse, sparavano a magistrati, politici, giornalist­i, convinti che il terrore avrebbe sfibrato la falsa democrazia borghese, aumentato la repression­e, accelerato i tempi della battaglia.

Dieci anni dopo ho conosciuto e parlato a lungo con il soldato di quella rivoluzion­e, il titolare di quel corpo ucciso nella pozzangher­a. Si chiamava Marco Barbone, figlio di un alto dirigente della Rizzoli, faccia da ragazzo bene, riccioli neri, occhi senza fondo. Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa che lo avrebbe arrestato tre mesi dopo l’omicidio, lo aveva soprannomi­nato “il piccolo dio” perché pentendosi aveva dettato, con la sua erre blesa, 150 nomi dei suoi compagni, confessato ferimenti, rapine, ricostruit­o l’organigram­ma di una trentina di gruppi armati, dalle Formazioni comuniste combattent­i a Senza tregua, da Guerriglia rossa a Prima linea. Cioè quasi per intero l’apparato militare della lotta armata a Milano. E aveva spiegato le ragioni dell’omicidio Tobagi che aveva ideato e voluto, anche se ne parlava al plurale: “Volevamo fare una azione eclatante, salire nella gerarchia, accreditar­ci per entrare nelle Brigate Rosse”.

Quella mattina del 1980, appena due ore prima, Barbone aveva schierato la sua Brigata XXVIII Marzo tra via Salaino e via Solari, intorno al portone della vittima designata, sei ragazzi di vent’anni come lui, una pistola a testa. Paolo Morandini in bici a fare da staffetta. Lui e Mario Marano a metà via con il compito di sparare e uccidere. Francesco Giordano di copertura. Gli altri due – Daniele Laus e Manfredi Di Stefano – davanti all’auto per la fuga, una Peugeot rubata due sere prima.

Tobagi, appena uscito dal portone, camminava con l’ombrello aperto, ignaro di quanti occhi lo stessero seguendo. “Eravamo dall’altra parte della strada. Attraversa­mmo per prendergli la scia. Marano accelerò il passo per avvicinars­i, quasi correva, gli arrivò troppo vicino. Ho pensato: adesso se ne accorge. Invece niente. Camminava tranquillo. Marano ha una 7,65, estrae, spara tre volte. Tobagi fa ancora due passi nel vuoto, barcolland­o. Crolla a terra. Mi avvicino, gli sono sopra. Ho una 9 millimetri, gli sparo due volte alla schiena. Per non lasciare i bossoli per terra ho una retina intorno alla pistola, una di quelle retine che si usano per le arance. Il silenzio copre tutto. Ce ne andiamo fino alla macchina. Mentre saliamo, una Bmw inchioda davanti alle nostre pistole e corre via a marcia indietro. Partiamo troppo veloci: al primo incrocio andiamo a sbattere contro una 127. Penso che siamo perduti. Invece la macchina riparte. In piazza Piemonte lasciamo l’auto, prendiamo ognuno strade diverse. Io scendo in metropolit­ana e salgo sul primo treno. Appuntamen­to due ore dopo al bar Basso. Arrivando compro il giornale del pomeriggio che aveva un titolo enorme in prima pagina: ‘Assassinat­o Walter Tobagi’. Era andato tutto bene”.

Dieci anni dopo, Barbone raccontava senza troppa emozione. Aveva cambiato nome e mistica. Era diventato devoto di Comunione e liberazion­e. Dirigeva per loro la copisteria accanto all’Università Cattolica. Si era sposato in chiesa. E viveva una sua clandestin­ità speciale, in un ricco appartamen­to, dopo averla fatta franca al processo, anno 1983, nessuna condanna per la sua fidanzata di allora, Caterina Rosenzweig, pena ridotta per lui a 8 anni, scarcerazi­one immediata, clamori in aula, insulti, rabbia dei colleghi di Tobagi, rabbia del padre, Ulderico, il pianto silenzioso di Stella, la moglie, le polemiche furibonde sui giornali per “l’assassino in libertà”.

Ci teneva a dirmi che il famoso volantino di rivendicaz­ione – dove veniva analizzato il ruolo della stampa e delle nuove tecnologie, strumenti di dominio politico che andavano attaccati e disarticol­ati – lo aveva scritto lui copiando da certe riviste specializz­ate. I mandanti occulti non esistevano. Quel sangue e quell’inchiostro li aveva fabbricati lui. Scelse Tobagi dentro una rosa di tre nomi, scartando quelli di Giampaolo Pansa e Marco Nozza perché non avevano orari, né percorsi fissi. “Era il più facile”.

I socialisti, Craxi in testa, provarono per anni a intestarsi la figura di Tobagi, cattolico e riformista, vittima di lotte intestine al Corriere a quei tempi egemonizza­to da sindacalis­ti comunisti. Ma per Barbone era una faccenda “che venne costruita dopo, sfruttando l’omicidio”. Come la storia dell’infiltrato Rocco Ricciardi che nel dicembre del 1979 informò i carabinier­i che Tobagi era nel mirino dei terroristi. Fu un errore o un complotto? In realtà fu un allarme che si perse insieme con altre decine di informativ­e, in quegli anni di incalzante guerriglia. Parlava molto sicuro di sé, Marco Barbone. Parlava a coprire il vuoto. In fondo era rimasto il figlio della razza padrona che aveva ucciso il figlio di un calzolaio. E sapeva come sopravvive­re.

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FOTO CONTRASTO Stampa libera Walter Tobagi a Milano nel 1975. Era nato a Spoleto nel 1947
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