IL PRESTITO A FCA DIMOSTRA CHE LO STATO CONTA DI MENO
Garantire il prestito di 6,3 miliardi di euro a Fca, dopo che questa ha rinunciato alla nazionalità e residenza fiscale italiane, fa rosicare parecchio. Come se non bastasse, gli azionisti hanno in animo di staccare un dividendo di quasi altrettanti miliardi prima di sostanzialmente vendere la baracca a un concorrente francese, Peugeot. Però. Questo non accade perché Fca è“cattiva” o“ingrata”. Tali categorie non si applicano al campo delle scelte imprenditoriali, per definizione opportunistiche. Fca, siccome residente nellaUe con stabile organizzazione in Italia (i suoi stabilimenti), ha il diritto di non essere trattata meno favorevolmente di qualsiasi altra società residente. È un principio fissato dalla Corte di giustizia sia dai primi anni ottanta e amen. Quella stabile organizzazione è al contempo il grimaldello giuridico per accedere alla garanzia statale oltre che lo strumento di ricatto verso il nostro governo: quei soldi servono a pagare gli operai italiani in cassa integrazione e a non chiudere le fabbriche. La verità è che se per una FCA che si leva dai tre passi ci fossero altre società che investono, potremmo fare spallucce e evitarci questo provinciale piagnisteo; invece, è solo l’ultimo capitolo di un’emorragia che parte da lontano. E attenzione: c’è una bella differenza tra una società che passa in mano straniera (la proprietà di Land Rover è indiana, ma è sempre un marchio inglese) e quella di una società (come Fca) che, a proprietà invariata, fa i bagagli e va via. L’umiliazione subìta ci insegni almeno qualcosa. Va preso atto che, volenti o nolenti, lo Stato in quanto tale conta sempre meno. E non mi riferisco al tema della Ue (alla quale abbiamo sì ceduto importanti quote di sovranità, ma consapevolmente e democraticamente e avendo un posto nella stanza dei bottoni che la governa), ma alla concorrenza internazionale. Essa ha ridotto la sovranità degli Stati senza dare loro in cambio una cabina di regia che, data la sua natura acefala, non esiste proprio.
Il libero sfogarsi delle forze del mercato ci ha restituito un mondo nel quale gli Stati (e quindi non più solo le imprese) devo essere competitivi. Lo Stato del secolo scorso faceva il bello e il cattivo tempo, tanto l’imprenditore dove volevi che andasse? Oggi, invece, i grandi player internazionali dispongono del diritto a’ la carte. Possono segmentare le loro aziende (per esempio separando la proprietà intellettuale dalla tecnologia sottostante o il capitale dal suo proprietario) e distribuire i vari pezzi in giro per il mondo scegliendo gli ordinamenti che meglio tutelano ciascun segmento. Non c’è insomma il “prendere o lasciare”, ma il “diritto fai da te”. Affinché dunque una multinazionale si impianti in Italia e paghi le imposte italiane, devi offrirgli servizi efficienti, trasparenza e non da ultimo vivibilità ai dipendenti e manager. In un mondo simile, risultiamo veramente patetici pensando che qualcuno venga in Italia a fare impresa solo perché gli abbassiamo di qualche punto le imposte ma non affrontiamo alla radice il tema della certezza del diritto, della corruzione e dei tempi biblici della giustizia.
La concorrenza non può essere combattuta, va sfruttata e governata. Sullo sfruttarla, si è già detto. Sul governarla, ci vuole un’autorità sovranazionale che amministri la concorrenza fra Stati, che fissi le regole minime di ingaggio e che emargini gli attori che adottano regimi (non solo fiscali aggressivi, ma anche) manifestamente contrari a buona fede. La concorrenza non è un male in sé, anzi; ma il far west lo è eccome. La Ue e il Wto si occupano di queste faccende. Ma in modo purtroppo assai lento e inefficace. Non si tratta quindi di inventare la ruota, intendiamoci, ma di potenziare e ampliare il raggio di azione di meccanismi che già esistono. Dopodiché, però, basta lacrime di coccodrillo.
6,3 MILIARDI LA RICHIESTA DELL’AZIENDA RISPETTA LA LEGGE; RESTA L’UMILIAZIONE SUBÌTA