Il Fatto Quotidiano

I medici di Lodi: “Fontana ci disse no a zona rossa”

- MILOSA

L’epidemia rallenta, ma è ancora in corso. La curva dei contagi cala e però in Lombardia in modo troppo lento. Tanto che da giorni i nuovi positivi sono il 70% del totale nazionale, ieri l’85%. La causa è chiara: qui il virus è arrivato prima, è stato cercato male con pochi tamponi ed è stato contenuto peggio. E se la mancata zona rossa ad Alzano è diventata un caso politico-giudiziari­o, altre gravi mancanze passano sotto traccia. Su tutte un’altra zona rossa dimenticat­a: quella di Lodi città. I primi check point istituiti dal governo erano attorno a 10 Comuni della Bassa lodigiana, a pochi chilometri dal capoluogo. Eppure Lodi dal 21 febbraio fino alla chiusura della Lombardia decretata l’8 marzo è rimasta città aperta. Così come annunciava il 22 febbraio una nota del Comune, seguendo le indicazion­i di Regione e governo rispetto all’assenza di casi a Lodi solamente un giorno prima la scoperta del paziente 1 a Codogno. Due settimane, quindi, durante le quali circa 10mila persone ogni giorno hanno preso il treno, l’auto per andare da Lodi a Milano e qui muoversi con metropolit­ana e autobus. Perché lì lavorano. Quale miglior volano per portare un virus così contagioso anche nell’area metropolit­ana del capoluogo lombardo.

AL 29 FEBBRAIOil

38% dei casi lombardi arrivava dal Lodigiano, oltre uno su tre. Massimo Vajani è il presidente dell’Ordine dei medici di Lodi. Su questo non ha dubbi: “Più volte ai tavoli con la Regione ai quali ho partecipat­o ho sottolinea­to che la città di Lodi doveva essere considerat­a zona rossa, o almeno zona arancione, ma non sono stato ascoltato”. In quei giorni di fine febbraio e inizio marzo, il virus correva di più in queste zone. Al 2 marzo i casi erano 384 con la provincia di Bergamo a 243. Oggi, a distanza di quasi quattro mesi, non c’è paragone: la devastazio­ne portata dal Covid nel Bergamasco è evidente. Lodi è molto più indietro. Il punto qui però è un altro. In quei primi giorni l’obiettivo era contenere, ma lasciando aperto un Comune di quasi 50 mila abitanti al confine con l’epicentro del contagio, è stato difficile. “Ci sono – prosegue Vajani – ambulatori che stavano a tre chilometri dalla zona rossa ma non vi rientravan­o, per quale motivo?”. E ancora: “Tutti i pendolari in quei giorni andavano aMilano e lo facevano partendo da Lodi. Molti miei pazienti mi chiedevano giorni di malattia, perché a Milano, dove lavoravano, venivano considerat­i untori e rispediti a casa”. Il permesso per malattia non era consentito se non per coloro che rientravan­o nella zona rossa. Non vi è dubbio che fu un azzardo non ricomprend­ere Lodi nei check

point. E questo anche perché, dopo la chiusura degli ospedali di Codogno e Casalpuste­rlengo, tutti i malati in quei giorni furono dirottati sull’ospedale di Lodi. “L’ospedale – continua Vajani – in quelle due settimane era sotto assedio. Anche perché lì arriLa testimonia­nza Il presidente dell’Ordine Vajani: “Segnalai che la città doveva essere chiusa, non mi ascoltaron­o” vavano pazienti non Covid che avevano bisogno del pronto soccorso, il contagio in questo modo si è diffuso e subito le terapie intensive hanno collassato”. In città arrivavano pazienti e parenti. Bar e locali erano aperti. Sarebbe stato meglio – sostiene il presidente dell’Ordine dei medici di Lodi – “tenere aperto Codogno (riaperto il 4 giugno, n dr ) e attrezzarl­o con percorsi differenzi­ati tra Co

vid e non Covid, magari con tende di triage esterne”. Sempre Vajani, intervenut­o a un incontro dell’ass oci azio ne Lodi liberale, presente anche l’assessore al Welfare Giulio Gallera, ha spiegato: “Ne i primi momenti dell’e m e rgenza – riporta il Cittadino – ci siamo trovati a gestire la situazione senza direttive. Non c’è mai stata una voce unica che desse indicazion­i. La Regione parla di previsione fin da gennaio, ma allora perché non è stata procurata una prevenzion­e sui dispositiv­i di protezione individual­e a fronte di possibile epidemia? Il territorio doveva fare da filtro per evitare che si intasasser­o gli ospedali”. Nulla di ciò è stato fatto e l’ospedale di Lodi è diventato uno dei più importanti focolai d’Italia, libero di potersi propagare verso Milano.

 ??  ??
 ??  ?? 22 febbraio I genitori di Mattia, paziente 1 A lato, checkpoint nel Lodigiano FOTO ANSA/LAPRESSE
22 febbraio I genitori di Mattia, paziente 1 A lato, checkpoint nel Lodigiano FOTO ANSA/LAPRESSE

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy