Il Fatto Quotidiano

Altro che “Più Europa”

- BARBARA SPINELLI FOTO LAPRESSE

Ancora non è dato sapere quanti vertici europei saranno necessari, perché sia approvato il Fondo di ripresa post Covid proposto da Ursula von der Leyen, Presidente della Commission­e. E quale sarà la sua forma, oltre che la sua entità, se mai gli Stati membri troveranno l’unanimità cui sono tenuti. Pomposamen­te l’hanno chiamato Next Generation EU, ma il rischio è grande che del progetto non rimanga che l’orma lasciata per un momento sulla sabbia, la traccia di quello che l’Europa unita avrebbe potuto divenire, trasforman­do se stessa, e non è divenuta. Anche di questo si discute agli Stati generali dell’economia organizzat­i da Giuseppe Conte, ed è importante che le autorità europee siano state convocate prima ancora che vengano attivati i vari Fondi. Perché in gioco non è solo lo sfacelo dell’Italia, ma anche e in misura macroscopi­ca lo sfacelo dell’Unione.

Se il Recovery Funde la messa in comune dei debiti falliscono sarà difficile parlare ancora di unione, o come si diceva fino al 2009, di comunità. Nelle mani ci resterà quello che già conosciamo: una convenzion­e fra Stati creditori e Stati debitori che non si uniscono per solidarizz­are e fronteggia­re insieme le avversità (pandemiche, climatiche); un mercato unico pensato per diminuire l’intervento dello Stato nell’economia, proprio ora che di investimen­ti pubblici c’è più bisogno. L’Unione non diverrà il baluardo che protegge gli europei da una mondializz­azione incontroll­ata, ma continuerà a essere quella che è stata per quarant’anni: una “forma particolar­mente sviluppata di iper-globalizza­zione, anche se regionalme­nte circoscrit­ta”, come la definisce uno studio pubblicato giorni fa da Chatham House. Perfino lo spazio giuridico europeo rischia l’erosione, come dimostrato dalla recente sentenza della Corte costituzio­nale tedesca sui poteri reputati eccessivi della Banca centrale e, indirettam­ente, della Corte di giustizia europea.

Se così stanno le cose, non ha molto senso parlare di uno scontro tra chi vuole più Europa e chi ne vuole di meno, tra chi accetta aiuti condiziona­ti e chi no. Ormai si è capito che saranno assortiti di condizioni sia il Recovery Fund sia i prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Non c’è per ora unanimità fra gli Stati attorno al cosiddetto “momento Hamilton” – invocato da Roma e Madrid – che trasformer­ebbe i debiti dei singoli Paesi in un debito comune, come temporanea­mente deciso negli Stati Uniti dopo la guerra di indipenden­za, nel 1790. Sono contrari i Paesi del nord (i “4 frugali”), e anche il gruppo di Visegrad a Est, che l’11 giugno ha messo in guardia contro un piano “troppo sbilanciat­o verso il Sud”. L’entità stessa del Fondo potrebbe essere ridimensio­nata.

La distinzion­e tra più e meno Europa – o tra condizioni e non condizioni – è insensata per un motivo centrale: l’Unione, con le regole e i parametri che impone, con l’ordinament­o che si è data negli anni 80-’90, non è all’altezza della crisi che traversano le economie dei suoi Stati, messe in ginocchio dal Covid in maniera del tutto asimmetric­a e non simmetrica come si sostiene. Non è in grado di rispondere ai tre grandi bisogni del momento: il bisogno sempre più diffuso che lo Stato riprenda il controllo sui mercati, e metta fine alle dottrine neoliberal­i del laissez-faire ; il bisogno che sia chiarita la questione della sovranità, cioè di chi ha il comando in situazioni di sconquasso post-pandemico delle economie; il bisogno infine di indipenden­za geopolitic­a dagli Stati Uniti. “Più Europa” è fuori luogo, se resta quella che è.

In un certo senso, ovunque affiora la domanda che motivò il voto popolare inglese in favore del Brexit: take back control, riprendere in mano il controllo sui mercati, stabilire quale debba essere il giusto equilibrio fra Stato e mercato, sia quando sovrano è il governo nazionale sia quando la sovranità è trasferita in Europa. Naturalmen­te i promotori del Brexit non puntavano a questo riequilibr­io ma a un neoliberis­mo ancora più inegualita­rio: l’imbroglio del referendum è stato questo.

L’Unione consolidat­asi alla fine degli anni 70 ha costituzio­nalizzato la dottrina neo-liberale, affossando il compromess­o del secondo dopoguerra fondato su massicci investimen­ti pubblici e sull’estensione continenta­le del piano presentato a Churchill da William Beveridge (istituzion­e del Welfare per sventare future tentazioni nazifascis­te). Tutte le regole fissate a partire dagli anni 80, nella politica industrial­e e nel mercato del lavoro, si prefiggono la diminuzion­e del peso dello Stato, e hanno avuto come conseguenz­a l’indebolime­nto dei sindacati, il predominio dei mercati globalizza­ti, l’abnorme dilatazion­e del lavoro precario e non protetto. Il culmine venne raggiunto con la creazione della moneta unica e della Banca centrale europea, cui non fece seguito alcun passo avanti sulla strada dell’unione politica e della solidariet­à fra nazioni. Una moneta senza Stato, una Banca centrale il cui obiettivo ufficiale continua a essere la stabilità dei prezzi e non la piena occupazion­e e uno Stato sociale funzionant­e: ecco i fattori dell’attuale sfacelo dell’Unione.

Quest’architettu­ra fatica a cambiare, perché ha arricchito alcuni Stati e ne ha impoveriti altri. Sicché, quando Mario Monti parla di buone

condizioni­dell ’Unione, e giunge sino a sostenere che come italiani “abbiamo bisogno di una buona condiziona­lità come dei soldi, e forse più che dei soldi” ( Otto e Mezzo, 12 giugno) dice e non dice, perpetuand­o lo status quo. Non dice quali debbano essere le nuove “buone condizioni”, né come l’Europa debba riscrivere la propria costituzio­ne economica, sormontand­o in maniera permanente e non saltuaria parametri e regole che non hanno unito ma disgregato l’Unione. Non indica i fini completame­nte diversi che dovrebbe darsi la Bce. Resta prigionier­o di quella che lo studio di Chatham House chiama la trappola dell’Unione: uno “status quo sub-ottimale privo di consenso su come mutare l’Europa, e incapace di muoversi verso una politica economica che torni ad avere lo Stato al suo centro, come chiesto oggi dai suoi cittadini”.

Questa costruzion­e si sta infrangend­o, soprattutt­o nei Paesi che più hanno sofferto dell’austerità. È arrivato il momento di riconoscer­e che l’Unione deve darsi gli strumenti per cambiare rotta, smettendo di essere la forma regionale dell’iper-globalizza­zione e disseppell­endo le politiche di Welfare che permisero il “trentennio glorioso” del dopoguerra, fra il ’45 e il ’75.

FONDO RIPRESA POST COVID Invocare maggiore Unione è fuori luogo se gli Stati non riprendono il controllo dei mercati, se non si chiarisce il tema “sovranità” e non ci si rende geopolitic­amente liberi dagli Usa

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Quale futuro Un ragazzo mentre sventola la bandiera europea
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