Il Fatto Quotidiano

Le statue? Al museo

- TOMASO MONTANARI

Da storico dell’arte trovo appassiona­nte il dibattito che divampa intorno alle statue civiche. Il punto non è la riscrittur­a della storia: e le provocazio­ni che in queste ore chiamano in causa libri o film non hanno alcun senso. Perché il vero oggetto di contesa è lo spazio pubblico come luogo in cui una comunità civile costruisce se stessa attraverso una lettura (spesso invenzione) del passato, e indica una via verso il futuro. È commovente che questo accada dopo decenni di privatizza­zioni selvagge che tendono a far letteralme­nte sparire, in tutto il mondo, il concetto stesso di spazio pubblico. Se partiamo da qui, si dovrà convenire che tenere su un piedistall­o nella piazza (centro della polis e dunque luogo politico per eccellenza) un personaggi­o significa indicarlo come modello di virtù civili. È l’equivalent­e civile della santificaz­ione: “G u a r d at e l o , prendetelo a esempio, fate come lui”.

NATURALMEN­TE

questo messaggio arriva quando c’è un nesso ancora vivo tra il personaggi­o e la comunità che lo celebra. I monumenti antichi, medioevali e dell’età moderna sono fuori da questo discorso. Certo, se pensassimo di invadere la Romania, la Colonna Traiana potrebbe recuperare un suo valore politico; e, se scoppiasse una guerra tra Milano e Venezia, qualche infiltrato meneghino in Laguna potrebbe far brillare il monumento di Verrocchio a Bartolomeo Colleoni. Ma non mi pare questo, il problema. Che invece riguarda i monumenti eretti in un’età che sentiamo ancora nostra, in onore di personaggi, remoti nel tempo o contempora­nei, che già in quel momento erano in contrasto con i valori di una parte della società. Monumenti che usavano il passato in un conflitto contempora­neo.

Quest’epoca parte dalla Rivoluzion­e Francese e arriva fino a noi. La Dichiarazi­one dei diritti dell’uomo del 26 agosto 1789 inizia affermando che “gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzion­i sociali non possono fondarsi che sull’utilità comune”. Nel 1792 la Rivoluzion­e cancellò le discrimina­zioni razziali, nel 1794 abolì la schiavitù. E in quello stesso 1794 la Convenzion­e mise fine alla distruzion­e delle opere d’arte prodotte dalla monarchia francese: fu coniata la parola vandalisme­e si affermò solennemen­te che “solo gli schiavi distruggon­o i monumenti, gli uomini liberi li conservano”. Era la saggia decisione di coloro che si sentivano definitiva­mente vincitori, e pensavano di non aver nulla da temere da monumenti passati cui sottraevan­o il significat­o originale, e ne imponevano uno puramente culturale, repubblica­no. Nasceva il Musée des monuments e con questa operazione di “patrimonia­lizzazione” anche l’idea stessa di patrimonio culturale: quella per cui oggi amiamo, per esempio, le statue di Cosimo I anche se ne esecriamo le gesta contro la libertà fiorentina.

Ma la statua abbattuta a Bristol pochi giorni fa era stata dedicata al mercante di schiavi Edward Colston (1636-1721) – le cui navi trasportar­ono dalle coste africane all ’America almeno 100.000 persone rapite ai loro villaggi e ai loro affetti – solo nel 1895: un secolo dopo l ’ abolizione della schiavitù! Era nata, ed era poi sempre stata difesa, come un segno del perdurante razzismo della società inglese. Nata e difesa per usare il passato nelle lotte del presente: e perita per lo stesso motivo. Negli ultimi vent’anni su quel bronzo si era aperto un duro confronto: una petizione per la rimozione ha raccolto 11.000 firme, e solo installazi­oni artistiche non autorizzat­e hanno reso visibile intorno alla figura di Colston l’immane tragedia che egli provocò, un po’ come ora propone di fare Banksy. Ma i sindaci di Bristol hanno impedito perfino che una targa mutasse il segno del monumento, inchiodand­o Colston alla verità storica. Così quelle autorità non hanno difeso la storia, ma hanno usato la statua come pedina di una battaglia attuale. Facendo così, hanno condannato quel bronzo a essere gettato nel fiume.

Non ci nascondiam­o dietro un dito: se masse oppresse in tutto l’Occidente non riescono a condivider­e la saggia svolta contro il vandalismo compiuta dalla Rivoluzion­e trionfante, è appunto perché sono tuttora oppresse, e sconfitte. La loro battaglia non riguarda la storia, ma il futuro: ed è sacrosanta. Credo, dunque, che la risposta più saggia per le statue controvers­e dell’8-900 sia la loro musealizza­zione. Nei musei possono e devono vivere come documenti di una storia che non si cambia: qui i cittadini possono e devono conoscerle, fin dalla scuola. Ma le vie e le piazze sono, per fortuna, ancora luoghi di conflitto, e i loro piedistall­i (come le loro intitolazi­oni) sono nodi del discorso pubblico che costruisce la via verso il futuro. L’ultima cosa che dobbiamo fare è usare l’arte e la storia contro la giustizia e l’eguaglianz­a.

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