C’era una volta Morricone, la nostra colonna sonora
■■remio Oscar per le musiche che han fatto la storia del cinema, è morto a 91 anni dopo una caduta. Verdone: “Era un poeta artigiano”
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Fu eccezionale: celebre per le colonne sonore, ma la sua opera sinfonica va oltre il cinema ’’
Paolo Isotta
Grande lo era, eppure non s’è persuaso che i grandi continuino a far parlare di sé anche dopo la morte. Il necrologio, alla voce “che cos’è il genio”, se l’è scritto lui. Non può stupire, né chi lo conosceva bene, né chi sappia scrivere la musica, o almeno che significhi: dopo tante note, ha voluto l’ultima parola. Ricorda i familiari, gli amici, tra cui il regista che prediligeva, “Peppuccio” Tornatore, e “per ultima Maria (ma non ultima)”, la moglie adorata: “A Lei il più doloroso addio”.
TOCCATA E FUGA,
e funerali privati (già avvenuti alla presenza di pochi intimi): “Per una sola ragione: non voglio disturbare”. Sottrazione, come talvolta nelle sue partiture, e silenzio, cui s’è infine concesso. Non amava la definizione di colonna sonora, nondimeno, quelle che ci lascia sono le colonne d’ercole della Settima Arte: le ha affrancate dal mero servizio, liberate dall’occasionalità, restituite alla piena dignità musicale. Nessun complesso di inferiorità, nessuna natura ancillare: la musica con Ennio Morricone dà del tu al cinema, lo guarda negli occhi e gli riempie le orecchie.
Nell ’ immaginario acustico collettivo c’è lui, pri
mus inter pares, pop nel senso di popolare, arte nel senso di artigianato. L’art
pour l’art, no: ha messo sempre davanti l’uomo, e se stesso, al creato, e il lavoro all’invenzione, la dedizione all’estro, la tecnica al miracolo, la pratica al genio che pure era. Poco prima di compiere i novant’anni alla domanda “come si sente a essere un orgoglio italiano?”, rispondeva: “Mi sento bene, perché s o’ g ua ri to dall’ influenza”. Poi la registrazione, e un occhio all’orologio: giocava la sua Roma. Che non è più Caput
mundi, ma grazie a lui ci si è riscoperta: citofonare Terrence Malick, Roland Joffé, Brian De Palma, Barry Levinson, Mike Nichols, John Carpenter, Quentin Tarantino, l’america non l’ha trovata lui, l’h an no trovata gli americani in Ennio.
Come osserva, e un po’ rosica, il New York Times, “non ha mai imparato a parlare inglese, non ha mai lasciato Roma per comporre, e per anni s’è rifiutato di prendere l’aereo”, risolvendosi a visitare gli Stati Uniti per la prima volta nel 2007, all’età di 78 anni. Cordoglio e ammirazione, nondimeno, si tengono per mano in tutto il mondo, che oggi scrive sotto dettatura, la sua, anche quando – come il Washington Post– ne fraintende l’epopea e trascrive l ’ on om a t op e a , “ah-ee-ah-ee-ah”, poi emendato nel “wildly inventive theme of The Good, the Bad and the U
gly ”. Il Buono, il Brutto e il Cat
tivo, l’ocarina strappata all’oblio e consegnata al mito, gli spaghetti western che, alla pari con Sergio Leone, impiatta nella Storia del Cinema: “Partiture ‘infuocate’(…) effetti sonori, tra cui famosi il fischio, le chitarre elettriche, la campane, la frusta, l’armonica a bocca, il carillon, l’organo, le voci (vocalizzi, sillabazioni), eccetera. Trova così modo di imporsi – scriveva Ermanno Comuzio in Musici
sti per lo schermo (edizioni Ente dello Spettacolo) – uno stile riconoscibilissimo, imitato da tanti e diventato ‘maniera’”.
Oltre cinquecento colonne sonore, anche venti in un anno: orecchio fino e bocca buona. O, almeno, da sfamare: se già nell’ottobre del 1971 otteneva il primo Disco d’oro per un milione di dischi venduti, la paura che non lo chiamassero più e dovesse cambiare mestiere se l’è portata appresso fino ai settant’anni, sicché, “io accettavo quasi tutto, salvo i film bruttissimi. Non ne avrò rifiutati più di cinque, sei in tutta la carriera: facevo di tutto per guadagnare”. Ci ha tratto uno sconfinato appartamento vista Campidoglio, il pianoforte a giocare a nascondino con l’arredo barocco, una scrivania monumentale per comporre. Ma è solo il domicilio, la residenza l’ha presa sotto le nostre docce, sui
balconi e i terrazzi della pandemia, nella nostra carta d’identità musicale. Bernardo Bertolucci, per cui firmò da Prima
della rivoluzione (1964) a La tragedia di un uomo ridicolo
(1981), sosteneva che Ennio avesse scritto almeno due o tre possibili inni nazionali italiani, lui si sarebbe limitato a “rallentare e riarmonizzare” quello di Mameli e lo propose, invano, al presidente della Repubblica Ciampi – nel televisivo Cefalo
nia di Riccardo Milani ve n’è traccia, e una dissacrante anticipazione in Bianco, rosso e Verdone.
Salvaguardando al contempo un superlativo musicale assoluto, Morricone senza girare una sola inquadratura ha dato al cinema come pochissimi altri. Come, al Bif&st del 2019, l’ha spiegato Tornatore, che lavora da tempo a un documentario sul Maestro: “C’è un muro che separa da sempre i musicisti del cinema dagli altri, ma è pure vero che Pasolini nei suoi primi due film chiamò come musicista Bach e dopo chiamò Morricone”.