Mercalli Cemento De Micheli
L’attrazione fatale per le grandi opere cementizie continua a intossicare la strategia politica di qualsiasi colore. Una visione obsoleta, tutta anni Cinquanta-sessanta, convinta che la crescita del Paese sia affidata in primo luogo a eserciti di ruspe e betoniere che trasformano boschi e campi in strade, autostrade, aeroporti, ferrovie, aree logistiche e si spingono perfino in mare con catafalchi inefficaci come il Mose. Contemporaneamente la stessa politica proclama fantasiose svolte verdi, riduzione delle emissioni, lotta all’emergenza climatica, salvaguardia della biodiversità, difesa dei beni comuni per le generazioni future. Tutti annunci che vengono privati di fondamento proprio da quei cantieri tanto osannati, responsabili di consumo di suolo, consumo di energia fossile, consumo di cemento, di asfalto, di acciaio. E che poi saranno fonte di nuove emissioni climalteranti nella fase di esercizio, poiché nuove strade, aeroporti e pure le ferrovie, che nel caso dell’alta velocità in tunnel non sono affatto ecologiche, chiameranno nuovo traffico, nuovi trasporti, nuovi consumi. La sostenibilità ambientale non si fa a parole, ma con precise valutazioni di tonnellate di CO2 emessa, di materie prime utilizzate, di rifiuti prodotti e di benefici ambientali attesi. A priori tutte le grandi opere hanno un elevato costo ambientale, richiedono un sacrificio di spazi e di risorse, e si può soltanto tentare di mitigare il loro impatto, non di eliminarlo. Ma almeno alcune passano l’esame di utilità ambientale, come le infrastrutture idriche: è giusto riparare e potenziare dighe, canali e acquedotti anche in vista dei cambiamenti climatici che porteranno più caldo e siccità, è giusto costruire depuratori che evitino lo sversamento di acque inquinate nei fiumi e nei mari. È giusto recuperare aree dismesse evitando nuovo consumo di suolo e riqualificare energeticamente gli edifici, è giusto investire nella capillare manutenzione del patrimonio infrastrutturale esistente: ponti, gallerie, viadotti in cemento armato che hanno ormai cinquant’anni di vita e necessitano di urgenti e continue cure per mantenersi in efficienza e in sicurezza. È giusto investire in bonifiche ambientali di siti industriali inquinati, in opere locali per la difesa dell’assetto idrogeologico: spesso sono cantieri piccoli, di breve durata e poco invasivi: ripristino di muretti a secco, canali di scolo delle acque meteoriche, briglie, arginature, ma pure in questo caso le nuove tendenze dell’ ingegneria naturalistica propendono per meno calcestruzzo e più spazio ai fiumi, evitando di andare a costruire nei loro alvei e nelle zone a rischio, ormai accuratamente cartografate nelle banche dati nazionali di frane e alluvioni coordinate da Ispra. Finiamola di pensare che sia cosa buona e giusta aggiungere sempre qualcosa. Lo spazio non è infinito, bisogna anche considerare i limiti fisici attorno a noi. Con capillari attività di manutenzione dell’enorme patrimonio già esistente, ci sarebbe lavoro pressoché infinito per il comparto edile senza distruggere quel poco di territorio naturale che ci resta. Perché allora annunciare esultanti che lo sblocca cantieri di nuove strade, autostrade, tunnel ferroviari, è una svolta epocale, quando la vera svolta sostenibile sarebbe cancellarli del tutto dai programmi e trasferire quei miliardi di euro sugli obiettivi del tanto evocato Green Deal europeo? È significativo che il Piano Colao per il rilancio del Paese citi una “Rivoluzione Verde per proteggere e migliorare il capitale naturale” e poi la espliciti in una perversa scheda che mette insieme “Infrastrutture e Ambiente”, accostamento a dir poco blasfemo e contraddittorio. L’ambiente non può essere spartito con le infrastrutture, o peggio a esse subordinato, come appare dalla stessa posposizione lessicale: l’ambiente è un valore superiore all’economia e al lavoro, ed essendo soggetto a depauperamento irreversibile deve avere il diritto di fermare le grandi opere quando inutili e dannose. Mi sembra invece che Conte e Costa, due politici che di ambiente parlano spesso e pure bene, siano però come medici che predicano una dieta sana per una buona salute futura mentre il paziente sta crepando sotto i loro occhi per un’emorragia: hanno in mano il laccio emostatico ma invece di stringerlo, lasciano che la De Micheli lo sciolga. Peccato, perché il paziente, che è poi il nostro clima, il nostro suolo, il nostro cibo, la nostra ricchezza naturale e paesaggistica, morirà. E non serviranno a resuscitarlo le vuote parole che esaltano un mondo verde e sostenibile. Se si crede veramente a una svolta verde, si abbia più coraggio: come diceva Mario Rigoni Stern, anche il coraggio di dire no, a una crescita economica che è diventata patologica, pura predazione di beni comuni insostituibili.
GOVERNO L’ATTRAZIONE FATALE PER LE GRANDI OPERE CEMENTIZIE CONTINUA A INTOSSICARE