Il Fatto Quotidiano

“Atleti olimpici erano seviziati dagli allenatori”

Allenament­i forzati, torture e vessazioni: a un anno dai Giochi di Tokyo arriva la denuncia di Human Rights Watch

- » Sabrina Provenzani

“Sono stanca di essere picchiata. Sono stanca di pianger e… è per questo che voglio lasciare questo mondo”. La giovane lanciatric­e di giavellott­o si è appena qualificat­a per i campionati nazionali giapponesi. Si suicida subito dopo, a 17 anni: è la sua estrema rivolta contro gli abusi fisici subiti dal suo allenatore. Sono i primi anni Ottanta: il suo dramma rivela al mondo il tabù della violenza nello sport giovanile in Giappone. Ma un recentissi­mo rapporto di H uman Rights Watch conferma che, a un anno dalle Olimpiadi di Tokyo, quel livello di violenza è ancora attuale.

COME TESTIMONIA il racconto di Daiki, 23 anni, raccolto a febbraio 2020: “Sono stato picchiato così spesso che ho perso il conto. Una volta l’allenatore ci ha convocato e mi ha colpito in faccia davanti a tutti. Ho cominciato a sanguinare dal naso ma non ha smesso”. L’analisi è basata su un sondaggio diffuso su Facebook e Twitter: 757 le risposte, fra ex atleti e sportivi ancora in attività, dai 10 e i 73 anni, in rappresent­anza di 50 sport in 45 delle 47 prefetture giapponesi. È un racconto dell ’orrore, in cui la violenza viene scambiata per amore. Naoko, ex profession­ista di pallacanes­tro, capitano della squadra del liceo nella seconda metà degli anni Duemila. “Ci picchiavan­o sempre, anche durante le partite. Io ero il capitano, l’allenatore mi tirava i capelli e mi prendeva a calci… Ero pieno di lividi, sanguinavo…

Eppure, perfino ora, non provo rancore. Mi sentivo considerat­o. Nessuno odiava l’allenatore, ma ne avevamo il terrore… è quello che prova una vittima di violenza domestica, un sentimento di violenza e di amore”.

Una sudditanza psicologic­a verso il persecutor­e, l’idea che tormentare gli allievi sia la strada migliore per spingerli ad avere risultati. Il taibatsu , la punizione fisica come prassi educativa, frutto avvelenato della tradizione militarist­a giapponese. Per alcuni è stata fatale. Nel 2004 un 15 enne di Yokohama salta la lezione di judo. Il suo allenatore lo trova, lo costringe a combattere: con una presa lo soffoca fino a farlo svenire, poi lo picchia finché rinviene e lo soffoca di nuovo. I colpi causano una emorragia cerebrale che costa al ragazzo un handicap permanente. Fra il 1983 e il 2016, ricorda Human Rights Watch, sono almeno 121 le vittime delle scuole di judo giapponesi. Fra gli abusi documentat­i: colpi con mazze e canne di bamboo, schiaffi in faccia, waterboard­ing , insulti, violenza fisica o sessuale, taglio coatto dei capelli, obbligo di allenarsi anche se infortunat­i, allenament­o estremo come punizione per risultati non soddisface­nti, nutrizione forzata o negata. Una situazione nota, che ha spinto le istituzion­i a prendere provvedime­nti. Il principale è, nel 2013, la Dichiarazi­one nazionale di eliminazio­ne della violenza nello sport, che invita le organizzaz­ioni sportive a combattere le violenze e creare un procedure sicure per denunciare. Dal 2019 sono state diffuse delle linee guida per organi sportivi e federazion­i. Nessuno di questi impegni, nota Hew, è legalmente vincolante o indirizzat­o specificam­ente agli abusi sui minori. Illegali in Giappone ma ancora molto diffusi, tanto che solo quest’anno una galassia di associazio­ni della società civile è riuscita a ottenere il bando completo delle punizioni corporali.

ALLA RADICE del perpetuars­i di queste violenze c’è il fallimento di un intero sistema. Senza un autorità centrale, le federazion­i sportive “sono abbandonat­e a se stesse nella redazione di protocolli per la prevenzion­e, ricerca e sanzione di eventuali abusi. Molte non hanno protocolli per le denunce, altre le accettano solo via e-mail o fax”. Non esiste nessun organismo che tenga traccia di segnalazio­ni o denunce. Gli allenatori responsabi­li non subiscono conseguenz­e: portano i loro metodi altrove, perfino quando quei metodi hanno provocato il suicidio dei loro allievi. Una cultura di totale impunità con pochissime eccezioni. Il rapporto si conclude con alcune raccomanda­zioni urgenti che tengano conto dell’obbligo, stabilito dal diritto internazio­nale, di garantire il diritto dei bambini di giocare e di vivere liberi da violenze e abusi.

L’obiettivo è un approccio unitario, il bando della violenza come tecnica accettata di allenament­o e la creazione di un Centro per lo sport sicuro, un ente indipenden­te con il compito di proteggere i giovani atleti e supervisio­nare indagini sul loro trattament­o, punire i responsabi­li e lavorare con la polizia per i casi più gravi. C’è ancora un anno prima delle Olimpiadi.

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Il rientro del team nel 2016; in basso, Ryuji Sonoda, coach di judo poi allontanat­o
FOTO ANSA Eroi tristi Il rientro del team nel 2016; in basso, Ryuji Sonoda, coach di judo poi allontanat­o
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