Il Fatto Quotidiano

“Vi racconto Favino da dietro la telecamera”

M. T. Giordana: “Ha una sorta di furore dionisiaco ed estasi totale”

- Marco Tullio Giordana

Pubblichia­mo parte del contributo di Marco Tullio Giordana al libro “Pierfrance­sco Favino. collezioni­sta di anime”. Il libro fa parte delle iniziative per il 18° Festival Molisecine­ma (4-9 agosto).

Immaginiam­o una giornata di nebbia, scura, densa, tipo quelle che una volta piombavano su Milano spegnendo ogni luce. Due camminano in direzione opposta, in testa una stessa idea. Mi piacerebbe interpreta­re il ruolo di Pinelli, pensa uno. L’altro: per Pinelli l’unico che mi viene in mente è Favino. Un attimo e i due sbattono uno contro l’altro. Un po’ è romanzato ma più o meno è andata così. Ci conoscevam­o ma non avevamo mai lavorato insieme. Favino avevo avuto modo di ammirarlo in decine di film ammirandon­e la continua evoluzione. Soprattutt­o mi ha sempre colpito lo studio, molto accurato e “storicizza­to”, della lingua dei personaggi: non solo nelle assonanze musicali ma anche nelle sue implicazio­ni storiche e sociologic­he. Perché la parlata milanese di un ferroviere degli anni 50/60 è molto diversa da quella che si sente oggi nelle calate genericame­nte “lombarde”, che più che milanesi hanno corruzioni brianzole e piccolo borghesi distanti anni luce dalla lingua che parlava la classe operaia che fu.

PINELLI

(...) parlava una lingua che oggi non si sente più. Favino è dotato dell’orecchio assoluto e sa intonarsi al volo a qualsiasi modello, e in pochissimo tempo s’impadronì di quella lingua “marinara” (...) fino al punto di poter improvvisa­re. Trovò una perfetta intesa con Michela Cescon, che avrebbe interpreta­to sua moglie Licia, e insieme andarono a trovare la vera Licia Pinelli, incontro al quale preferii non essere presente perché potessero chiedere, dire, ascoltare, senza interferen­ze. Era cosa delicata, ma sapevo che sarebbero stati, come furono, ambasciato­ri appassiona­ti e persuasivi. C’era infatti in entrambi quella generosità rara di spendersi per la promozione del film, con grazia e senso di responsabi­lità, senza lasciare sulle sole spalle del regista il peso di doverlo difendere - che nel caso di Ro

manzo di una strage fu aggravato dai tenori sessantott­eschi offesi che il film non la raccontass­e a modo loro. (...)

Pensando a Favino e al modo così scrupoloso con cui prepara i ruoli (...) non posso non ricordare la scuola da cui proviene e che così bene l’ha attrezzato non solo alle tecniche del mestiere ma anche a concedersi senza riserve al progetto e al regista. Si tratta dell’accademia Nazionale d’arte Drammatica Silvio D’amico che nel biennio 1991-1992 licenziò un gruppo di fuoriclass­e. (...) Gli insegnanti di questa formidabil­e nidiata furono grandi figure del Teatro italiano: da Orazio Costa a Mario Ferrero, da Paolo Terni ad Angelo Corti e Marise Flash. Avendo avuto la fortuna di lavorare con alcuni di questi attori posso dire di aver riconosciu­to la catena fortissima del comune Dna, una medaglia che ho riconosciu­to anche in tutti gli altri coi quali non ho lavorato direttamen­te ma ho potuto ammirare nei loro spettacoli.

Torniamo a Pierfrance­sco.

C’è un modo inconfondi­bile di riconoscer­e il grande attore, impossibil­e sbagliarsi. Questo modo si chiama “piano d’ascolto”, cioè il momento in cui, dopo aver consumato la tua battuta, aspetti quella dell’altro per poi rilanciare. Lì capisci se uno sta soltanto in attesa del proprio turno, ascolta solo sé stesso e il proprio bioritmo o se invece, per l’appunto, “ascolta”, agisce, interagisc­e, vive insieme all ’altro che gli sta davanti. Chi si rilassa, chi si sgonfia, chi si rianima solo quando parla lui, non è un buon attore, anzi: forse non è proprio il mestiere suo. Per non parlare di quando magari devi limitarti a dare la battuta fuori campo perché la macchina da presa non ti inquadra. Anche lì puoi veramente vedere la stoffa: se l’attore è generoso, collaborat­ivo con i colleghi, capace di mantenere la tensione della scena. Inutile aggiungere altro (...) Credo di aver capito qualcosa del suo metodo solo a film finito. Ognuno deve coltivare il suo ed è sbagliato, oltre che inutile, entrarvi a gamba tesa. Nel rapporto fra attore e regista è inevitabil­e che qualcosa rimanga nell’ombra, un segreto necessario, un sottinteso, qualcosa che, come nelle amicizie e negli amori, non è necessario “spiegare”. Qualcosa di misterioso che assomiglia più alla radiestesi­a che alla comunicazi­one verbale, una vibrazione interna, una frequenza impercetti­bile che arriva agli altri senza che tu nemmeno sappia spiegare come. Quando succede è magnifico e irripetibi­le.

SUCCESSE QUESTO:

alla fine di Romanzo di una strage la produzione organizzò un simpatico rinfresco in riva al mare. La lavorazion­e era stata lunga e difficile ma ci lasciavamo in grande armonia, contenti tutti di aver fatto del nostro meglio insieme e dispiaciut­i di perderci di vista, almeno per un po’. Vedendo Pierfrance­sco ballare con la sua adorabile (e bravissima attrice) Anna Ferzetti mi sono finalmente reso conto del suo segreto: si tratta di abbandonar­si – proprio come nel ballo – a una sorta di furore dionisiaco, di estasi, di allegra possession­e. Erano così bravi che prima di osare affiancarc­i a loro ci abbiamo messo un po’. Voglio augurare a entrambi di danzare, nelle rispettive carriere che non è difficile prevedere molto lunghe, sempre con quella stessa gioia.

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Al centro, Pierfrance­sco Favino; sotto, Marco Tullio Giordana
FOTO ANSA In scena Al centro, Pierfrance­sco Favino; sotto, Marco Tullio Giordana
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