Per Zinga cercasi colle: il Viminale o il Campidoglio?
Pressing sul segretario per liberare il Nazareno
Ministro dell’interno, sindaco di Roma, segretario del Pd dimissionato, più che dimissionario? Cosa c’è nel futuro di Nicola Zingaretti?
Non è facile la sua estate, mentre stenta a trovare una via d’uscita da un ruolo che rischia di diventare sempre più ingrato: quello di essere a capo di un partito, ma con il compito essenzialmente di tenere insieme tensioni e volontà contrapposte, piuttosto che dirigerle in prima persona. Il suo punto di forza, da sempre, che però è anche il suo tallone d’achille. Paradossale il destino di uno che fa il segretario di un partito il cui obiettivo principale è stare al governo, senza farne parte.
RACCONTANO che Zingaretti abbia preso particolarmente male la classifica stilata dal Sole 24 Ore a inizio luglio, nella quale è ultimo nell’indice di gradimento dei presidenti di Regione. Così come è sempre più insofferente rispetto a un’esperienza di governo che non riesce a controllare davvero: non solo perché non ne fa parte, ma anche perché i gruppi parlamentari non rispondono a lui. E dunque, che fare?
Goffredo Bettini, parlando a Repubblica, domenica, ha adombrato il suo ingresso nell’esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Pare che il segretario non abbia gradito. L’ex europarlamentare resta il suo consigliere numero 1, ma le divergenze tra i due esistono. Così come le forzature a cui questi lo spinge. Prima di tutto, proprio il rapporto con il premier: mentre secondo Bettini, Conte non si discute, l’esperienza di governo va difesa e perseguita, Zingaretti tollera poco i continui rinvii e i continui compromessi che il Pd deve fare. Fosse per lui, il voto sarebbe la soluzione migliore. Tanto è vero che, dicono i suoi, in caso di elezioni anticipate lascerebbe la presidenza della Regione Lazio, candidandosi in Parlamento. Lo scenario, però, non è a disposizione. L’opzione di andare al governo è sul tavolo. Lo spingono non solo quelli che vogliono rafforzarlo, ma anche chi - a cominciare dal suo vice, Andrea Orlando - immagina un futuro alla guida dei Dem. Finora lui ha resistito: scettico sia a rischiare di lasciare spazio aperto al Nazareno, sia a entrare in un’e s p erienza che non vede come sua. Non è detto che alla fine – in caso di rimpasto – non finisca davvero così. La casella individuata per lui è quella del Viminale. Luciana Lamorgese è nel mirino dei sostituibili del Pd. Va detto che il tema migranti è di nuovo tra i più scottanti e che il Pd finora non è riuscito né a incassare la modifica dei decreti sicurezza di Salvini, né tantomeno a inserire lo ius soli nell’agenda del governo. Le premesse, dunque, non sono delle migliori.
Ma neanche l’alternativa è grandiosa: il 20 settembre si vota per le Regionali. Se il Pd, oltre a Liguria, Marche e Veneto dovesse perdere anche la Toscana sarebbe considerata una débâcle . Tanto più che eventuali vittorie di Michele Emiliano in Puglia e Vincenzo De Luca in Campania sarebbero considerate un loro successo personale. Base Riformista è già pronta a chiedere un congresso vero. E comunque vada, Orlando e Stefano Bonaccini sono pronti a candidarsi alla guida del Pd. Tanto più che quel giorno si prepara un’altra mezza sconfitta per i dem: si vota il referendum confermativo del taglio dei parlamentari.
UNA QUESTIONE che il Pd ha più subito che voluto e accettato formalmente solo in cambio di una nuova legge elettorale. Che all’orizzonte non si vede. A proposito di direzioni poco chiare: il Nazareno non ha intenzione di fare campagna elettorale per il Sì. Anzi medita di lasciare libertà di coscienza. Ovviamente, schierarsi ufficialmente per il No appare fuori discussione: battaglia troppo impopolare. Tra le varie collocazioni che si studiano per “Nicola”, c’è pure quella a sindaco di Roma: lui in passato ha sempre detto no. E i vertici del Nazareno stanno ancora cercando di convincere Franco Gabrielli (che sinora ha rifiutato, anche pubblicamente).
Ma le situazioni sono in evoluzione e la gestione è complessa. Una scelta del segretario su tutte è sembrata poco felice: quella di aprire la polemica sul Mes la notte stessa in cui Conte incassava i 209 miliardi complessivi del Recovery Fund . Nel merito, le ragioni di Zingaretti per farlo sono quelle di tutto il Pd. Nella scelta dei tempi è sembrato a molti poco lucido.