• De Masi Ridurre l’orario di lavoro
Il nodo tecnologico Meno ore ma più produzione può essere un’opportunità solo se vincono tutti
Se non fosse per la tragedia dei morti, un Coronavirus ogni paio d’anni sarebbe perfino auspicabile per una serie di ragioni. Fornisce una micidiale cartina al tornasole per svelare quanti reagiscono alla pandemia in modo infantile e ci metterebbe di fronte alla necessità di distinguere tutto ciò che è necessario da tutto ciò che è superfluo. Ad esempio, il primo marzo scorso c’erano in Italia meno di 600 mila telelavoratori e, dopo dieci giorni, sono schizzati a 8 milioni.
Ora l’attenzione si sta spostando sui licenziamenti e anche in questo caso il Covid-19 rivela deficienze antiche. In occasione del lockdown il governo ha introdotto il divieto di licenziare per l’ovvia ragione che il danno del Coronavirus si sarebbe scaricato tutto sui lavoratori, migliaia di famiglie sarebbero state travolte dal duplice danno della disoccupazione e della pandemia, con effetti disastrosi sulla salute, sull’economia e sull’ordine pubblico. Che molte aziende siano piombate in difficoltà impreviste è sotto gli occhi di tutti; che, nei limiti del possibile, lo Stato debba correre in loro soccorso è altrettanto evidente. Ma la vicenda dei licenziamenti deve farci riflettere sulla struttura del mercato del lavoro nella società postindustriale e sull’unica possibilità di risolverne i problemi in maniera strutturale.
Il mercato del lavoro è come un lago con affluenti e defluenti. Alcuni fattori fanno aumentare il numero di persone che cercano lavoro: la cosiddetta offerta. Altri fattori fanno diminuire i posti di lavoro disponibili: la cosiddetta domanda. Purtroppo questi fattori non sono in equilibrio e, da alcuni anni a questa parte, l’offerta aumenta molto più della domanda reale.
L’aumento di persone che offrono il proprio lavoro è dovuto a molti motivi: la vita media si allunga; arrivano immigrati da altri paesi; la salute migliora; anche le donne, i giovani, gli anziani, i disabili, categorie prima escluse dal mercato del lavoro, giustamente pretendono un’occupazione.
D’altra parte il fabbisogno di lavoro (la cosiddetta domanda) tende a crescere meno velocemente per almeno quattro fattori: la globalizzazione, lo sviluppo organizzativo, l’eccessivo addensamento della ricchezza in poche mani e il progresso tecnologico. Fermiamoci un attimo su quest’ultimo fattore. Da decenni le macchine hanno cominciato a sostituire gli operai; quelle digitali hanno cominciato a sostituire gli impiegati e i funzionari; ora, con l’intelligenza artificiale, sarà la volta dei manager e dei professionisti.
Stiamo imparando a produrre più beni e servizi con meno lavoro. Trent’anni fa noi italiani eravamo 57 milioni e, in un anno, lavorammo 60 miliardi di ore; lo scorso anno eravamo 60 milioni e lavorammo 40 miliardi di ore. Con 10 miliardi di ore di lavoro in meno abbiamo prodotto 600 miliardi di dollari in più.
È il jobless growth, lo sviluppo senza lavoro che, se gestito bene, è l’essenza del progresso; se gestito male provoca disoccupazione, disuguaglianze e conflitti sociali. Semplifico al massimo: se ho cento dipendenti che lavorano 40 ore alla settimana e introduco in azienda una nuova macchina che sostituisce venti lavoratori, o ne licenzio venti o li tengo tutti ma riduco l’orario settimanale in modo che ognuno lavori 32 ore.
Noi ci siamo comportati nel primo modo: da decenni, ogni italiano lavora inmedia 40 ore alla settimana e 1.723 ore l’anno per cui il nostro tasso di occupazione è del 58% e quello di disoccupazione è intorno al 10% . Invece un tedesco lavora mediamente 1.356 ore l’anno, per cui l’occupazione è al 79% e la disoccupazione al 3,8%.Dunque, se nei tempi brevi i licenziamenti vanno ridotti con i soliti incentivi alle solite aziende, nei tempi medi e lunghi l’occupazione può essere salvata solo riducendo drasticamente l’orario di lavoro.