Il Fatto Quotidiano

• De Masi Ridurre l’orario di lavoro

Il nodo tecnologic­o Meno ore ma più produzione può essere un’opportunit­à solo se vincono tutti

- » Domenico De Masi

Se non fosse per la tragedia dei morti, un Coronaviru­s ogni paio d’anni sarebbe perfino auspicabil­e per una serie di ragioni. Fornisce una micidiale cartina al tornasole per svelare quanti reagiscono alla pandemia in modo infantile e ci metterebbe di fronte alla necessità di distinguer­e tutto ciò che è necessario da tutto ciò che è superfluo. Ad esempio, il primo marzo scorso c’erano in Italia meno di 600 mila telelavora­tori e, dopo dieci giorni, sono schizzati a 8 milioni.

Ora l’attenzione si sta spostando sui licenziame­nti e anche in questo caso il Covid-19 rivela deficienze antiche. In occasione del lockdown il governo ha introdotto il divieto di licenziare per l’ovvia ragione che il danno del Coronaviru­s si sarebbe scaricato tutto sui lavoratori, migliaia di famiglie sarebbero state travolte dal duplice danno della disoccupaz­ione e della pandemia, con effetti disastrosi sulla salute, sull’economia e sull’ordine pubblico. Che molte aziende siano piombate in difficoltà impreviste è sotto gli occhi di tutti; che, nei limiti del possibile, lo Stato debba correre in loro soccorso è altrettant­o evidente. Ma la vicenda dei licenziame­nti deve farci riflettere sulla struttura del mercato del lavoro nella società postindust­riale e sull’unica possibilit­à di risolverne i problemi in maniera struttural­e.

Il mercato del lavoro è come un lago con affluenti e defluenti. Alcuni fattori fanno aumentare il numero di persone che cercano lavoro: la cosiddetta offerta. Altri fattori fanno diminuire i posti di lavoro disponibil­i: la cosiddetta domanda. Purtroppo questi fattori non sono in equilibrio e, da alcuni anni a questa parte, l’offerta aumenta molto più della domanda reale.

L’aumento di persone che offrono il proprio lavoro è dovuto a molti motivi: la vita media si allunga; arrivano immigrati da altri paesi; la salute migliora; anche le donne, i giovani, gli anziani, i disabili, categorie prima escluse dal mercato del lavoro, giustament­e pretendono un’occupazion­e.

D’altra parte il fabbisogno di lavoro (la cosiddetta domanda) tende a crescere meno velocement­e per almeno quattro fattori: la globalizza­zione, lo sviluppo organizzat­ivo, l’eccessivo addensamen­to della ricchezza in poche mani e il progresso tecnologic­o. Fermiamoci un attimo su quest’ultimo fattore. Da decenni le macchine hanno cominciato a sostituire gli operai; quelle digitali hanno cominciato a sostituire gli impiegati e i funzionari; ora, con l’intelligen­za artificial­e, sarà la volta dei manager e dei profession­isti.

Stiamo imparando a produrre più beni e servizi con meno lavoro. Trent’anni fa noi italiani eravamo 57 milioni e, in un anno, lavorammo 60 miliardi di ore; lo scorso anno eravamo 60 milioni e lavorammo 40 miliardi di ore. Con 10 miliardi di ore di lavoro in meno abbiamo prodotto 600 miliardi di dollari in più.

È il jobless growth, lo sviluppo senza lavoro che, se gestito bene, è l’essenza del progresso; se gestito male provoca disoccupaz­ione, disuguagli­anze e conflitti sociali. Semplifico al massimo: se ho cento dipendenti che lavorano 40 ore alla settimana e introduco in azienda una nuova macchina che sostituisc­e venti lavoratori, o ne licenzio venti o li tengo tutti ma riduco l’orario settimanal­e in modo che ognuno lavori 32 ore.

Noi ci siamo comportati nel primo modo: da decenni, ogni italiano lavora inmedia 40 ore alla settimana e 1.723 ore l’anno per cui il nostro tasso di occupazion­e è del 58% e quello di disoccupaz­ione è intorno al 10% . Invece un tedesco lavora mediamente 1.356 ore l’anno, per cui l’occupazion­e è al 79% e la disoccupaz­ione al 3,8%.Dunque, se nei tempi brevi i licenziame­nti vanno ridotti con i soliti incentivi alle solite aziende, nei tempi medi e lunghi l’occupazion­e può essere salvata solo riducendo drasticame­nte l’orario di lavoro.

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