Il Fatto Quotidiano

“Contro la fame serve un Nobel ai campesinos”

L’economista esperto di crisi alimentari

- » Riccardo Antoniucci

Ricorderem­o il 2020 come l’anno in cui la lotta contro la fame del mondo ha vinto il Nobel? Se chiediamo a Raj Patel, la risposta sembra essere piuttosto negativa. Nella giornata mondiale dell’ alimentazi­one, a una settimana dalla consegna del premio nobel per la pace 2020 al World Food Programme (Wfp), lo scrittore e attivista, autore di I padroni del cibo dice la sua a margine dell’intervento al convegno Bologna Award 2020.

Il Nobel per la Pace al World Food programmeè un buon risultato?

Penso sia positivo aver richiamato l’attenzione mondiale sul problema della fame e certamente il World Food Programme fa un lavoro molto importante per aiutare le persone a sopravvive­re alla fame. Però non dovrebbe essere compito suo debellare la fame nel mondo. La fame è una combinazio­ne di povertà, di crisi climatica e di effetti del capitalism­o predatorio, per questo è necessario andare oltre il modello della gestione dell’emergenza. Anzi, per me il problema è proprio che il World Food Programme sia diventato così necessario oggi per gestire le emergenze, perché è una conseguenz­a della distruzion­e sistematic­a della capacità del pianeta di produrre cibo in modo sostenibil­e e dell’aumento delle disuguagli­anze.

Quindi lei a chi l’avrebbe dato il Nobel per la Pace?

Al movimento internazio­nale dei contadini della “Via Campesina”. Il movimento raccoglie 200 milioni di membri su scala globale, combattono contro la fame nelle zone rurali, ma contempora neamente contro l ’ i n q u i n amento e contro il patriarcat­o, oltre ad adottare pratiche rispettose della biodiversi­tà. Io vorrei che il comitato per il Nobel smetta di concepire i sistemi alimentari come una cosa cui dare attenzione solo quando sono in crisi, e smetta di concepire i contadini come persone che hanno bisogno di carità, ma li veda invece come portatori di soluzioni nuove. L’obie ttivo non deve essere quello di “ges tire” la fame o “ges tire” il cambiament­o climatico, ma di mettere fine a queste cose. E questo si può fare solo con un impegno politico. La domanda da farsi è: come redistribu­ire la ricchezza?

In questo quadro, quanto ha inciso la pandemia di Covid-19?

Di certo ha peggiorato le cose. Stiamo registrand­o tassi di fame catastrofi­ci in tutto il mondo. Ma la pandemia ci ha anche mostrato che le comunità che hanno sistemi economici e sociali più attenti alla cura dell’altro hanno fatto molto meglio nel contrasto della pandemia rispetto alle comunità con u n’impostazio­ne essenzialm­ente neoliberis­ta, dove le persone devono cavarsela da sole. Penso, ad esempio, alla più grande baraccopol­i del mondo di Mumbai, Dharavi, che è riuscita a contenere il virus molto meglio degli Stati Uniti. Sempre in India, la regione povera del Kerala, che investe molto nella sanità pubblica, ha fatto molto meglio di alcune zone molto ricche del paese. Al contrario in America, come in tutti i posti in cui gli interessi delle multinazio­nali sono molto forti, i lavoratori essenziali sono stati sacrificat­i in nome del mantenimen­to dei profitti. In Texas, dove vivo, i principali focolai di infezione si sono verificati negli stabilimen­ti di confeziona­mento della carne o nelle prigioni, che rappresent­ano entrambi imprese molto redditizie.

Come sta cambiando la geografia della fame con il cambiament­o climatico?

Partiamo dal presuppost­o che i cambiament­i climatici non giovano a nessuno. Detto questo, è vero che le filiere produttive basate sulle monocoltur­e e su lunghe catene di trasporto dei prodotti da una parte all’altra del mondo hanno subito un impatto molto forte sia dal cambiament­o climatico, come anche dal Covid. Nelle aziende agricole più piccole, più sostenibil­i, con culture più diversific­ate, uno choc climatico può magari danneggiar­e una coltura, ma lasciarne intatta un’altra. Esistono nuovi tipi di sistemi e di tecnologie agricole che vanno nella direzione della diversific­azione e la distribuzi­one del rischio, che tutelano il suolo, di cui l’agricoltur­a neo-liberista moderna ha fatto di tutto per liberarsi, perché li considera inefficien­ti.

Come si aspetta che evolverà l’agricoltur­a nel prossimo futuro? La crisi può essere uno stimolo per produrre cambiament­i radicali?

Sicurament­e abbiamo bisogno di un’agricoltur­a del XXI secolo diversa da quella sviluppata nel XX, che è quella che ancora utilizziam­o. Dall’altro lato, non credo che ci sia niente di positivo nel milione e più di persone morte finora per Covid. Certo, potremmo sfruttare quello che abbiamo vissuto per ribadire la necessità di un cambiament­o radicale. Per affermare che la cura, e non il consumo, deve essere al centro della vita. Ma non ripeterò il ritornello per cui da questa orribile situazione deve per forza emergere qualcosa di positivo. La storia non funziona così, e a volte da situazioni terribili scaturisco­no cose ancora peggiori.

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FOTO FOTOGRAMMA/ LAPRESSE Sostenibil­ità Ieri è stata la Giornata mondiale della alimentazi­one. Sotto, Raj Patel
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