L’eredità spirituale del signor Bloom
Il verbo possedere ha un’ampia gamma di significati: avere in proprietà, essere pervasi da un’emozione o controllati da un demone, dominare, conoscere a fondo, avere qualcosa in sé. Il critico letterario Harold Bloom, scomparso un anno fa, era letteralmente posseduto dalla letteratura e, anche grazie a una strabiliante memoria e capacità di stabilire virtuosi link tra opere e artisti, sapeva diffonderne la bellezza. Certo lo faceva secondo i suoi (rigidissimi) canoni, cui è stato sempre fedele, fregandosene di compiacere chicchessia o di raccogliere consensi. Ecco perché era scomodo e irritante per molti.
DELLA DEVOZIONE
che nutriva per la letteratura è intriso Posseduto dalla me
moria. La luce interiore della critica , imponente volume tra saggio, testamento spirituale e intima elegia, omaggio agli scrittori, poeti e drammaturghi più amati, servita però da toni più morbidi rispetto a quelli leonini per cui era famoso. Geniale, ribelle, anticonformista, Bloom ha trascorso la vita a leggere più o meno in qualunque lingua (anche quelle morte) e ci ha lasciato in eredità un considerevole numero di saggi-totem. Nato nel 1930 nell’east Bronx di
New York da ebrei ortodossi crebbe a pane e poesia yiddish per poi divenire lettore onnivoro, famelico. Folgorato dall’incontro coi poeti romantici sviluppò poi una bruciante passione per giganti come Shakespeare (per lui era Dio), Dante, Milton, Whitman, Goethe, Dickens, Tolstoj, Ibsen, Proust, Joyce, e pure per la Cabala, i Salmi, la Tanàkh, sicuro che i grandi scrittori non possono mai iniziare da zero perché ispirazione significa necessariamente influenza. Dei contemporanei connazionali salvava l’amico Roth, Pynchon, Delillo. Dei nostri, Dante a parte, pollice su per Manzoni, Leopardi, Ungaretti, Svevo, Levi. Tutto il resto era, in soldoni, evitabile.
Estremo, sì, contestabile, pure, ma schietto e coerente con le sue convinzioni, mai asservito al potere. Quando mezzo mondo gli si scagliò contro all’uscita di Il canone occidentale (1994) – la “lista” dei 26 scrittori su cui è stata fondata la letteratura occidentale –, definendolo sessista (tra le donne salva solo Woolf, Dickinson, Austen e Eliot), razzista, elitario perché sosteneva “i cosiddetti maschi europei bianchi defunti” disse che “la grande letteratura non rende più altruisti”. Di un’opera conta solo la forza estetica, il mix di originalità, capacità cognitiva, esuberanza espressiva, lontano da ogni interpretazione psicologica o sociologica.
Nelle prime pagine è l’emersione di un ricordo d’infanzia a colpire: il viso della madre mentre accende le candele dello Shabbate recita la Berakhà (benedizione ebraica). Bloom spiega che la condizione di essere benedetti è essere favoriti da Dio, ma non sposa la fiducia della madre nel patto di Yahweh col suo popolo e ammette di aver dato altra forma a quella benedizione: dopo aver compreso che non riusciamo, pur volendo, ad amare un numero sufficiente di persone perché loro muoiono e noi restiamo, la letteratura diviene “strumento fondamentale per riempire noi stessi della benedizione che dà più vita”.
Per il severo critico, morto un anno fa, la letteratura è una “benedizione, ma non rende altruisti”