L’“epilogue” dei Daft Punk, i fabbricanti di suoni dance
Dopo quasi trent’anni di attività, la coppia di dj mascherati si scioglie: il loro electro-pop, che ha fatto ballare milioni di persone, è l’ultima vittima del Covid
vincita sul destino sino a poche ore fa, quando i Daft Punk hanno annunciato il loro scioglimento.
Per dare la notizia hanno pubblicato un video, in gran parte muto, che sembrerebbe al passo con i tempi, se non fosse che si tratta di una scena del loro film sperimentale del 2006, Electroma. Vi si vedono i due (finti) robot inoltrarsi in un deserto al crepuscolo: uno dei due ha indosso un congegno esplosivo con un timer di 60 secondi. L’altro si allontana, la bomba fa il suo dovere, il compagno va in mille pezzi mentre parte il brano Touch . Titolo del clippino: E p i l o g ue , corredato dalle date 1993-2021. Amen. Finisce così la vicenda artistica della coppia di fabbricanti di suoni che hanno rivoluzionato la scena dance: e se vogliamo trovare un gancio sincronico con il video di cui sopra, beh, la pandemia ha trasformato il pianeta in una landa disabitata o quasi, dove ogni assembramento è proibito, figurarsi il pigia-pigia frenetico e sensuale nei club.
Che missione pensare per i Daft Punk nel tempo immobile e desolato del Covid? In che modo Thomas e Guy-manuel avrebbero potuto convincerci che andrà tutto bene, se le piste restano vuote e gli amplificatori spenti? A ben guardare, lo scioglimento dei DP è la più cocente sconfitta strategica di un sound nato per essere sempre un passo oltre ogni convenzionalità, con quel disegno di uno scenario futuribile che comunque restava maledettamente carnale, sudaticcio, irresistibile malgrado la plastica, i computer e anche senza i costumi da umanoidi.
I Daft Punk si sono arresi (come in un ricorso storico di Agincourt) perché ora non possiamo sentirci rassicurati – né guariti – da quel suono che ti arrivava addosso come un’euforica, profana benedizione dei sensi. Pensate a Get Lucky, la vertigine planetaria del 2013 innescata con la complicità della voce di Pharrell Williams e la chitarra grattugia-ritmo del sornione maestro Chic Nile Rodgers: sparatela a tutto volume in un capannone affollato di persone di qualunque condizione, età, credo sociale o religioso e controllate il movimento involontario dei loro piedi. Un esperimento sociale dal risultato garantito. E i due sotto gli elmetti cibernetici a godersi la scena, con quell’alb um ( Random access memories) il più compiuto tra i quattro realizzati, grazie al quale i Daft Punk si portarono a casa cinque dei sette Grammy della carriera. Che aveva avuto un prologo quando ancora erano una band indie chiamata Darling: dopo la solenne bocciatura del prestigioso Melody Maker (“a daft punk trash “, “un gruppo di sciocchi teppisti”), cambiarono nome facendosi beffe di quel rovescio critico.
Evolvendosi ed esplorando, nei 28 anni di sodalizio si sono mossi costantemente sul crinale della sorpresa, risciacquando in modo perfido una propria creazione ( Da funk) solo per poter dire “si tratta sempre di seguire l’inaspettato”. A ogni costo: basti ascoltare la colonna sonora – spiazzante ma adeguata – del film Tron: the legacy o plaudire alle collaborazioni con The Weeknd e Giorgio Moroder. O promuoverli come b us in essmen per il lancio della piattaforma Tidal, sei anni fa, insieme ad altri big come Jay-z, Alicia Keys, Beyoncè, Nicky Minaj. Furono persino capaci, un giorno, di rifiutare la richiesta di David Bowie, che chiedeva ai due maghi di remixare un suo pezzo. Loro niente. Il Duca Bianco britannico respinto alle porte dello studio dai due cavalieri transalpini. In nome di Agincourt.