Addio Ferlinghetti: dopo un secolo si spegne un “Urlo”
1919-2021 È morto a quasi 102 anni il poeta, pittore, editore, talent scout e “fabbro” della generazione lisergica: scoprì Kerouac e pubblicò Ginsberg, finendo in carcere
Ancora poco e sarebbero state due le primavere del suo secondo secolo, ben 102 anni giusto il prossimo 24 marzo. Completamente cieco ma ancora totalmente voce, Li t tl e Boy, ovvero Lawrence Ferlinghetti, il miglior fabbro nell’officina della controcultura, è morto adagiandosi in un sorriso. Il suo solito, il suo mantra – “Mangia bene, ridi spesso, ama molto” – e poi San Francisco, la città del santo più santo.
IL POETA DALLE VENDITE milionarie al tempo della Beat Generation, questo è: il giullare di un Dio tutto suo, tutto di avanguardia e ricerca. Ed è, Ferlinghetti, l’innamorato di un’italia trasfigurata come solo un orfano può immaginarsela: un po’ Verona – che è la città che custodisce gli originali del Petrarca –, un po’ di Brescia, che è la città di suo padre morto troppo presto, e poi ancora un po’di Sicilia, ma proiettata in chissà quale galassia del futuribile avendo come tramite d’oltreoceano Mauro Aprile Zanetti, esperto di Intelligenza artificiale, tra i più ferrati capitani dell’industria tecnologica, diventato il suo famulus, il suo servo di scena, il primo tra i devoti della chiesa ferlinghettiana. Non lascia eredi, ma lettori. Come solo i grandi che non hanno epigoni, l’eterno suo tutto di canto è intatto e avvinto alla sua stessa vita. La sua biografia, infatti, è uno dei più squillanti romanzi d’occidente.
Resta nella cultura di massa per parlare alle masse. Ecco la suprema astuzia di poesia. City Lights, il catalogo di Ferlinghetti per i cui tipi nel 1955 edita Urlo di Allen Ginsberg, gli apre le porte della prigione un anno dopo. Condannato per avere stampato l’oscenità – lui che non lo sarà mai beatnik – lui che non è il Vladimirmajakovskij del proletariato americano (in quella parodia della Rivoluzione bolscevica qual è la stagione della contestazione beat) si ritrova bestesellerista da milioni e milioni di copie, oltretutto a colpi di poesia.
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Mangia bene, ridi spesso, ama molto... Io sono l’acrobata che si arrampica sulla sua stessa corda
Resta nella controcultura di massa per parlare alle masse. E neppure per lisciare il pelo dal verso giusto, anzi: “La solita paranoia della sinistra/ che adesso si è riversata sugli ecologisti/... sempre a farneticare sul buco dell’ozono”. Le sue mura di Ilio – se mai Ferlinghetti è nel solco di Euripide, il cantore delle Troiane – sono le macerie di Nagasaki e il fungo di Hiroshima. Mostruosità ormai rimosse dall’immaginario occidentale, le due immani mattanze della catastrofe atomica voluta a suggello della Seconda Guerra mondiale che lo porta a gettare la propria uniforme di soldato della Marina degli Stati Uniti per diventare parte della terra bruciata del mondo: “Che cosa mai sarebbe servito ai troiani, mentre i palazzi di Ilio rovinavano che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?”. Geniale organizzatore di meeting, Ferlinghetti si definisce per ciò che non è. In antitesi a Pound, Ferlinghetti si svela in un’antologia il cui titolo è ben più che un lapsus: Il lume non spento.
Figlio di una madre pazza, adottato, cresciuto e formato dalla famiglia presso cui la zia è domestica, Ferlinghetti – per suo stesso canto – “è l’acrobata che si arrampica sulla corda che s’è costruita”. Maestro, certo, ma lo è di una sola generazione: quella beat. Il buio s’è preso ieri la sua voce. Rimane la sua parola.