• Lerner Nicola ha coraggio
Ebravo Zingaretti. Comunque vada a finire. Speriamo voglia ricredersi chi lo definiva un ologramma, uno che “lascia dietro di sé l’eco malinconica di un vuoto”.
Le sue dimissioni rappresentano uno scatto d’orgoglio inusuale nella politica italiana, ma non per questo vanno considerate una mossa improvvisata. Complimenti a Wanda Marra che fu la sola ad anticiparne le intenzioni, il 25 febbraio scorso, su questo giornale. Dichiarando di provare vergogna per la dinamica autodistruttiva innescata nel partito dai suoi avversari interni, Zingaretti li chiama a una salutare resa dei conti; che è l’esatto contrario della falsa unanimità dietro a cui si tessevano le manovre spartitorie di corrente. L’esito del confronto che viene imposto loro dal passo indietro del segretario, non è scontato. Quanto meno si può sperare che le scelte future, anziché limitarsi alla disputa sugli organigrammi, rispondano alle domande imposte dalla situazione in cui versa il paese.
Come si contrasta l’avanzata della povertà?
Che ruolo deve assumere lo Stato nella riconversione delle imprese in crisi? Il Pd vuole ancora rappresentare u n’alternativa al disegno tecnocratico impersonato dal governo Draghi? Nei mesi scorsi Zingaretti s’era dovuto accorgere che diverse espressioni del padronato (posso ancora adoperare questa parola?) di lui non si fidavano. Lo trovavano inadeguato e troppo poco sensibile ai loro desiderata. I giornali “amici” si sono prestati da cassa di risonanza alle azioni di disturbo di Renzi intanto che magnificavano il leghismo moderato dei vari Giorgetti e Zaia. Il ribaltone governativo è stato celebrato come svolta provvidenziale. Tra le sue auspicate conseguenze non era prevista solo la dissoluzione del M5S, ma anche l’addomesticamento di un Pd predestinato a una collocazione centrista. Credo Zingaretti volesse reagire a quelle sistematiche punture di spillo quando sbottò contro “l’eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic che vuole solo sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo”. Sulle ragioni per cui il segretario del Pd s’è ritrovato fra le “macerie”, dovremo ritornare. Ma intanto, quando Zingaretti, subìta la caduta del governo Conte, ciò non di meno ha ribadito la validità dell’alleanza con il M5S e LEU, addosso gli è piovuta l’infamante accusa di populismo. È poi bastato un sondaggio del tutto ipotetico secondo cui il Pd precipiterebbe dietro al M5S guidato da Conte, per raffigurarlo in veste di dissipatore del patrimonio di partito. Poco importa che nel 2018 il suo predecessore Renzi avesse preso poco più della metà dei voti grillini. E che nonostante due successive scissioni Zingaretti sia riuscito a risalire di tre punti da quel baratro, respingendo il tentativo di spallata di Salvini nelle regioni un tempo “rosse”, Emilia e Toscana.
A tutti gli iscritti di quel grande partito che resta il Pd, non limitandosi ai membri della sua pletorica Assemblea Nazionale, viene ora offerta l’occasione di intraprendere un percorso doloroso ma necessario di confronto con la realtà: il bilancio mai compiuto della prolungata infatuazione renziana; ma non solo. Quando Zingaretti ricorda le “macerie” a partire da cui il Pd è chiamato a ricostruirsi – o a dissolversi, oggi è anche questa una concreta eventualità – giocoforza entra in discussione la natura stessa di quel partito; ultimo erede delle tradizioni di una sinistra italiana che al suo interno difficilmente si percepiscono. Lo ha scritto con salutare brutalità Gianni Cuperlo, uno di quei dirigenti che ancora credono che il Pd possa avere un’anima “sociale”: “Siamo un partito forte nel Palazzo e debole nel Paese”. Ricordando un dato di fatto inconfutabile: l’ultima volta che il centrosinistra vinse di misura le elezioni fu con Prodi nel 2006, quindici anni fa. Ma ugualmente per ben undici di questi quindici anni il Pd è rimasto al governo del paese. Vero è che nel frattempo il Pd si è democraticamente guadagnato il diritto di amministrare numerose città e regioni d’italia. Ma se restare nel governo nazionale è diventata, come pare, la sua principale ragion d’essere, allora ne consegue inevitabilmente la recisione di ogni legame di rappresentanza delle classi subalterne; e la mutazione del Pd in litigiosa agenzia governativa senza neppure più la base sociale con cui la Democrazia cristiana doveva rapportarsi. La spregiudicatezza con cui gli oppositori interni di Zingaretti hanno intrapreso contro di lui un gioco di sponda, dapprima con Renzi e da ultimo – vedi l’emiliano Bonaccini – perfino con Salvini, sono la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non deve stupire che lo stesso Bonaccini, così come il sindaco fiorentino Nardella, o Matteo Orfini, provengano dalle file degli eredi del Pci, che fu anche una scuola di cinismo politico. Nicola Zingaretti ha dimostrato di essere di un’altra pasta.