Il Fatto Quotidiano

“Mi hanno bullizzato e cantavo in doccia: il web mi ha salvato”

- LUCARELLI

Ieri era un ragazzino timido, preda facile dei bulli a scuola. Oggi è il cantante che ha aperto la seconda serata di Sanremo senza neanche una sbavatura, con una canzone destinata a sopravvive­re all’ariston e alle sue poltrone vuote. Wrongonyou, che poi si chiama Marco Zitelli, ha 30 anni, viene da Grottaferr­ata ed è una delle nuove proposte di un Festival di Sanremo in cui il futuro della musica è tutto da improvvisa­re. Sbaglio o per poco non facevi il calciatore?

C’è stata una specie di sliding doors, nella mia vita parallela forse ho già finito la carriera e ho una villa a Malibù. A 9 anni giocavo a calcio, ero molto alto e mi mettevano in difesa, però segnavo anche molti gol. I giornali locali cominciaro­no a scrivere qualche articolo su di me, un giorno viene Bruno Conti a farmi un provino. Io quella mattina mi rompo la caviglia. A quel punto?

Mi compro una chitarra. Che ragazzino eri?

Avevo i capelli ricci e lunghi, mi davano della “femmina”. Ero molto alto, troppo per alcuni. Mio padre aveva aperto una pizzeria, mi davano del figlio del pizzaiolo con toni di dileggio. Sono stato bocciato due volte, i miei sono separati, a 14 anni ho chiesto aiuto. A chi?

A mia madre, che mi ha portato da uno psicologo. Mi aveva montato un mini-canestro nel suo studio, così io che ero molto chiuso parlavo mentre giocavo. La chitarra ti ha aiutato a vincere la timidezza?

Sì, ma anche quando ho iniziato a stare sul palco non cantavo mai, facevo solo il chitarrist­a. Non ti piaceva cantare?

Ero Freddie Mercury, ma sotto la doccia. Poi una volta ci fu un Festival vicino a Cinecittà a Roma, c’era un buco tra un’esibizione e l’altra. Mi offrii di fare delle cover, cantando. Fu un successo che mi diede coraggio. E inizi cantare in inglese.

Sì, l’inglese mi fa da scudo, l’idea che non si capisca nell’immediatez­za quello che dico mi rassicura. Studiavi anche storia dell’arte.

Volevo dirigere un museo. Avevo il patentino come guida, a volte facevo anche quello che dava i biglietti, a volte quello che diceva “Ti prego non toccare il quadro sennò mi licenziano”, è stato bello. Poi però non ti laurei.

Volevo fare musica. Comincio a mettere le mie canzoni sul web, in particolar­e “Killer” nel 2016 su Spotify che ha un successo pazzesco. Vinco Arezzo Wave. E ti chiama “Carosello Records”.

Mi hanno fatto un grande regalo subito mandandomi un mese in California per registrare il primo disco, ho aperto il concerto di Levante all’alcatraz. Poi molte delle mie canzoni diventano colonne sonore di film e serie, tipo “Baby”. Ti chiama anche Alessandro Gassmann.

Un giorno mi telefona e mi chiede di fargli la colonna sonora per un suo film, Il premio. Io entusiasta. Poi mi richiama e mi dice “Ho visto dei tuoi video su Youtube, ti va di recitare?”. Mi dà il ruolo del nipote di Gigi Proietti. Per me un sogno, perché con mio nonno Bruno non ci perdevamo un suo show. Come è stato il set con Gigi?

Bellissimo. Aveva 77 anni e una gentilezza incredibil­e. L’unica volta che l’ho sentito domandare una cosa è stato quando ha chiesto ad Alessandro “Mi inquadri a mezzobusto? Allora posso rimanè in ciavatte’?”. Nella scena del film in cui lui va a ritirare il nobel in smoking, sotto aveva le ciavatte!

Ti ha sentito cantare?

Una volta nella saletta fumatori dell ’ hotel mi chiede se gli canto qualcosa. Accende la sigaretta e mentre canto non fa neanche un tiro, poi applaude. Che emozione. Dopo Sanremo la sua compagna Sagitta mi ha mandato un messaggio, mi ha reso felice. Poi arriva il lockdown.

Che cambia tutto. Torno a Grottaferr­ata e con la pandemia faccio i conti con quello che sono. Ho capito che non ero libero. Che le mie canzoni non erano sincere del tutto. Cioè?

Per esempio pensavo al music busi

ness. Che so, “Ora tolgo questa frase così il ritornello entra nei secondi che servono per rendere il pezzo radiofonic­o”. Poi mi sono guardato allo specchio e ho capito che mi mancava l’amor proprio. Per via del peso?

Pesavo 120 chili, sono dimagrito 20 chili in quarantena. Come Noemi!

Eravamo anche vicini di casa ma giuro che non abbiamo fatto la dieta insieme. E la musica?

Ho scritto 20 canzoni, tutte in italiano. Dieci sono nel nuovo album, Lezio

ni di volo. È stato un momento in cui mi sono fermato e ho potuto guardarmi nel profondo. Ero troppo proiettato sui like, sui sold-out. In quarantena mi sono dimenticat­o dei numeri, mi sono ricordato di me.

Cosa ti ha colpito in quei mesi?

Una persona che conoscevo, un batterista, si è ucciso durante la quarantena. L’altro giorno parlavo con un direttore d’orchestra, mi dice che ha chiamato il miglior batterista in circolazio­ne per registrare una cosa e quello gli ha risposto che doveva chiedere al datore di lavoro, si è messo a fare il piastrelli­sta. Per te invece è arrivato Sanremo.

Un Sanremo strano, vai a cantare, ti misurano la febbre, entri nella red room solo, ti esibisci, ti ridanno il cappotto e torni in hotel. Non vivo

il bagno di folla, le cene, il Sanremo goliardico. Neanche una gioia?

Ho incrociato Orietta Berti in camerino perché cantava dopo di me. Aveva il disegno di due capesante sulle

sise, era pazzesca. Altre gioie?

Il messaggio di Jovanotti. Mia mamma poliziotta che è fiera di me. E poi cantare con un’orchestra. Io a Elvis invidiavo non le donne o il ciuffo, ma il fatto che avesse un’orchestra a disposizio­ne tutte le sere. E poi i bulletti dell’epoca che scrivono sui social “Marco è un vecchio amico”. In fondo la malinconia che ispira tanta mia musica è un regalo loro.

Sono stato bullizzato Bravo a calcio, ma mi ruppi la caviglia

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