“STRISCIA”, L’USO SCORRETTO DEL “POLITICAMENTE CORRETTO”: ALCUNI ESEMPI
Striscia non chiede scusa perché è, e resterà, una trasmissione satirica e, come le trasmissioni satiriche e comiche di tutto il mondo, politicamente scorretta (Ufficio stampa di Striscia la notizia, Ansa, 15 aprile).
La scenetta di Striscia con Gerry Scotti e Michelle Hunziker che fanno la caricatura dei cinesi dicendo L invece di R e mimando gli occhi a mandorla ha avuto una risonanza internazionale che ha sorpreso molti italiani: non abituati al discorso sul razzismo nei media, mostrano di ignorare che si può essere razzisti anche in modo involontario. Perfetta, quindi, la contrizione di Michelle (“Sono lungi dall’essere razzista, gli stereotipi si insinuano nella nostra quotidianità senza che ci accorgiamo della loro presenza e senza farci rendere conto che potrebbero essere dolorosi per qualcun altro. Ci abituiamo alla loro presenza e li normalizziamo. Ma ora stiamo imparando a cambiare. Tutti noi stiamo imparando, e sono lieta di poter cogliere l’occasione di cambiare anch’io. Quindi, di nuovo vi chiedo scusa. E vi prego di non odiare: tutti facciamo degli errori”), in un video su Instagram che la mostra in total white, la divisa ufficiale delle pubbliche scuse worldwide.
Purtroppo, chi ha difeso il programma ha banalizzato buttandola sulla “dittatura del politicamente corretto” e sul “diritto di satira”. Cerchiamo di sbrogliare la matassa, di cui fa parte anche un fatto emblematico: i giornali italiani hanno ricordato le minacce di morte ricevute dai due conduttori, ma hanno dimenticato quelle da cui è stato subissato Louis Pisano, il giornalista di Harper’s Bazaar che ha stigmatizzato su Instagram la gag di Striscia ( shorturl.at/bqaop ).
Un discorso è “politicamente corretto” se non ghettizza per etnia, genere, orientamento sessuale, età, religione e disabilità: la locuzione, dunque, esprime un concetto nobile, ma nei Paesi multiculturali la destra se ne serve per derubricare a una questione di stile, da sbeffeggiare, sia le critiche sostanziali alle sue politiche reazionarie e discriminatorie, sia i giudizi contro il linguaggio che le formula, nel qual caso la destra inveisce contro la “polizia del pensiero”. Questa tendenza perniciosa, di cui l’ultimo esponente chiassoso è stato Trump, finisce per sdoganare comportamenti aberranti, come quelli contro cui è sorto il movimento di protesta #blacklivesmatter. Una tattica sussidiaria dei reazionari, molto in voga sui social, invoca la “libertà di espressione”, come se ci fosse libertà di razzismo. I più sofisticati ricorrono a una frase di Ricky Gervais: “Solo perché ti sei offeso, non significa che hai ragione”. Giusto, ma l’argomento è reversibile: “Solo perché mi sono offeso, non significa che ho torto”. Razzismo e discriminazione, infatti, non riguardano l’atto di offendersi (che può essere più o meno giustificato: se l’esistenza dei gay ti offende, hai torto), ma il contenuto razzista e discriminatorio (che può essere giudicato tale in modo obiettivo, e può essere indipendente dalle intenzioni dell’emittente: se perculi i gay come esseri ridicoli, hai torto). Le idee, e la lingua che le esprime, si adeguano ai mutamenti della società: possono farlo in peggio, come durante il nazismo, o in meglio, come sta accadendo nelle democrazie occidentali grazie ai movimenti per i diritti civili. Oggi, per esempio, non sono più accettabili barzellette come questa, tratta da un’antologia stampata a New York nel 1921: “Un uomo di colore, benestante, si ammala, ma non migliora con le cure di un medico della sua stessa razza. Così chiama un medico bianco, che dopo un esame accurato gli domanda: ‘L’altro dottore le ha preso la temperatura?’ Il malato scuote la testa: ‘Non lo so, signore. Mi pare mi manchi solo l’orologio’”.
(1. Continua)