Quando l’aborto è una colpa
Da qualche mese Alicemerlo, una ragazza di Genova che ha scelto di fare la testimonial della pillola abortiva, viene insultata sui suoi profili social e pure alla vecchia maniera, cioè con scritte offensive sui manifesti affissi in molte nostre città. Lo slogan della campagna nazionale promossa dall’uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) in favore della RU486, la pillola abortiva che evita il ricovero ospedaliero e l’intervento chirurgico è “Aborto farmacologico, una conquista da difendere”. L’associazione ha contattato Alice dopo aver letto un post su Facebook in cui lei spiegava di avere abortito, di stare bene e di essere serena. Dopo la sua testimonianza in tantissimi le hanno inviato parole d’affetto e gratitudine, ma le sono arrivate anche offese terribili (“puttana assassina”). E minacce: “A marzo ho ricevuto vere e proprie minacce di morte e, ogni giorno, mi ritrovavo a segnalare o bloccare haters. Addirittura, mi hanno addebitato la morte dei loro figli”, ha spiegato la ragazza a Micromega, che ha raccontato la storia sul suo nuovo sito (www.micromega.net). Dove si legge che nelle ultime settimane il suo profilo Instagram è stato colpito da un “bombardamento digitale”: i suoi post sono stati sommersi da commenti denigratori di utenti anonimi o riconducibili a fantomatiche sigle politiche: no, Alice non vive nel Paese del Paese delle meraviglie. Ad agosto dell’anno scorso il ministero della Salute ha riformulato le linee guida per l’accesso alla pillola Ru486, eliminando l’obbligo di ricovero per l’interruzione volontaria della gravidanza, tramite aborto farmacologico (linee guida rimesse in discussione da alcune Regioni, come Marche, Umbria, Piemonte). “A mio avviso è necessario normalizzare la narrazione sull’aborto, eliminando il tono giudicante e gli stereotipi che ci colpevolizzano. Interrompere la gravidanza è, a volte, una scelta difficile ma è anche una scelta liberatoria e fatta in serenità. Nel mio caso lo è stato. Perché non dirlo?”: così Alice ha spiegato la sua scelta di metterci la faccia per una campagna sacrosanta in un Paese con il 70 per cento di medici obiettori (in alcune Regioni si arriva anche al 90). A Vanity Fair che le chiedeva quali sono gli insulti che più l’hanno offesa, ha detto: “Quelli che vorrebbero essere dalla mia parte ma mi giudicano, magari dicendo ‘sono favorevole alla 194 ma l’aborto è sempre un dramma’. Mi spiegano come dovrei sentirmi e cercano di impormi il senso di colpa e di vergogna”.
UN PAIO DI SETTIMANE fa, a Piacenza, una studentessa che aveva appena abortito è diventata il bersaglio di biglietti anonimi, affissi sulla porta della sua aula, in tutto il piano in cui si trova la classe. Fogli con un feto disegnato e scritte come: “Ho bisogno di affeto”; “Questo eri tu”. A seguito di un’indagine interna la dirigente scolastica ha “chiuso il caso” dicendo che si era trattato di una “nefasta coincidenza” e che la persona che aveva affisso i manifestini non sapeva che la studentessa avesse abortito, né intendeva mettere in discussione il diritto all’aborto come tutto faceva (e fa) pensare. Come è evidente, a 43 anni dalla legge 194, c’è ancora moltissimo da fare: a troppi non è chiaro che la battaglia per una piena applicazione della legge non è un invito ad abortire, ma la difesa dell’autodeterminazione delle donne. Aiuterebbe che il sistema dell’ informazione si appassionasse meno alle cazzate (tipo le supposte offese alla comunità cinese da parte di due conduttori televisivi) e più a questioni che incidono nella vita della società e nell’applicazione dei diritti garantiti dalla legge.
IL CASO INSULTI E MINACCE ALLA DONNA DELLA CAMPAGNA A FAVORE DELLA RU486