• Lerner I bastiancontrari del Pd’az
Eravamo troppo giovani e ignoranti, noi di Lotta Continua, per comprendere il complimento che ci rivolgeva Giorgio Bocca, quando scriveva che appartenevamo al filone culturale gobettiano e azionista. Alcuni grandi vecchi che da lì provenivano – Ferruccio Parri, Vittorio Foa, Nuto Revelli, Norberto Bobbio, Carlo Casalegno, Leo Valiani – avevano con noi un rapporto di paternale comprensione o viceversa di aspra polemica. Anche perché i loro figli militavano nel nostro movimento, suscitandone il consenso o il dispetto quando parlavano di “Resistenza tradita”.
Giovanni De Luna, all’epoca militante e storico alle prime armi, prese molto sul serio la faccenda. Decise di fare davvero i conti con la storia di Giustizia e Libertà e del Partito d’azione. Pubblicò, esattamente quarant’anni fa, un libro meticoloso fin quasi alla pignoleria, ma proprio per questo rimasto imprescindibile, per rispondere a una domanda scomoda: come mai era precipitato nell ’ irrilevanza politica, fino al repentino scioglimento nel 1947, un partito che aveva riunito personalità di grandissimo rilievo, ma destinate a restare esigua minoranza nella classe dirigente italiana del dopoguerra?
Trascorsi quattro decenni dalla prima pubblicazione, lo sguardo lungo sulla vicenda narrata da De Luna consente riflessioni ulteriori: come si spiega l’eccesso di livore che ancora oggi i detrattori riversano sull’azionismo e sui suoi eredi? Quasi che si trattasse di una corrente eretica della borghesia italiana, fastidiosa per l’intransigenza con cui si oppose al fascismo e la tenacia con cui continuò a denunciare i vizi nazionali permanenti che ne avevano favorito l’ascesa al potere.
Il denominatore comune di quel crogiuolo di culture post-risorgimentali, repubblicane, liberalsocialiste riunite nel PD’A, fu l’aspirazione a una “rivoluzione democratica”. Ne furono artefici uomini sospinti, appunto, da “volontarismo rivoluzionario” che mal concepivano la politica come “mestiere”. Non a caso, in questa riedizione, De Luna ha voluto cambiare il titolo e li definisce: “Il partito della Resistenza”. Eredi del sacrificio di Gobetti e dei fratelli Rosselli, sacrificarono nell’azione partigiana un numero elevato dei loro dirigenti: 4500 caduti su 35 mila combattenti delle formazioni GL. Ma il “partito dei fucili” no n riuscirà, o forse sarebbe meglio dire non vorrà trasformarsi nel “partito delle tessere”. Alle elezioni del 1946, già lacerato al suo interno dopo la caduta del governo Parri, nemmeno arriverà al 2% dei consensi.
Forse potremmo definirlo anche il partito degli antipartito, partito d’opinione dell’attivismo civico e della democrazia “dal basso”. Al cui interno convivevano la visione neocapitalistica di Lamalfa e l’adesione al modello occidentale, con un’ispirazione soprattutto torinese che riconosceva alla classe operaia (e al Pci) la funzione di architrave della lotta di Liberazione. Una spartizione di ruoli teorizzata con umiltà da Augusto Monti, l’insegnante del liceo D’azeglio che educò molti antifascisti della prima ora: se gli operai stavano con il Pci, al PD’A toccava il ruolo scomodo ma necessario di coscienza critica dei grandi partiti della sinistra, operando nella “gelatina” dei ceti medi. Eppure resta sign ificati vo che, in continuità con “l’affidamento gobettiano alla classe o pe ra ia ”, figure importanti dell’azionismo nel d op og ue rra scelgano l’impegno sindacale: da Vittorio Foa a Bruno Trentin, in ciò erede della cultura di autogoverno democratico del padre Silvio.
Ce n’è abbastanza per capire perché gli azionisti suscitino ancora tanto fastidio nella borghesia conservatrice che li vede come traditori dei suoi interessi. E perché, al contrario, il loro contributo d’azione e di visione critica della società italiana meriti grande riconoscenza.
“ERETICI” CONTRO QUELL’EREDITÀ OGGI RESTA FORTE LIVORE