Il Fatto Quotidiano

• Oliva Le parole e la violenza

IL comico è un padre, ma anche un politico. E quello che dice ha un potere. Di fronte ad accuse di stupro, se gli indagati hanno diritto a difendersi, la presunta vittima ha il diritto a non essere umiliata

- » MADDALENA OLIVA

Confesso, quel video l’ho dovuto interrompe­re. E ho anche una certa difficoltà a leggere i tanti articoli e commenti di questi giorni, tra le accorate difese di un padre che ha agito per proteggere disperatam­ente il figlio, le letture apocalitti­che sulla fine del M5S o, peggio, quelle complottis­te che spieghereb­bero il sostegno a Draghi e al governo d’unità nazionale con quello che è, comunque lo si veda, un dramma.

Una storia che inizia una notte d’estate a Porto Cervo, e che, per rispetto di tutti i protagonis­ti, sarebbe dovuta rimanere il più possibile privata. E, invece, se il video di Beppe Grillo un pregio (l’unico) ce l’ha è di aver acceso, suo malgrado, il dibattito su un tema – la violenza, lo stupro presunto o tale, la vittimizza­zione secondaria, il linguaggio, il #Metoo – troppo spesso relegato a questione di genere. Tant’è che persino i partiti si sono trovati, chi strumental­izzando chi meno, a doversene occupare (il che ha qualcosa di straordina­rio: per una volta discutono di un fatto reale, di qualcosa che nella società accade).

NON MI SCONVOLGE TANTO la brutalità del messaggio di un padre, che però è pure un politico e in quanto tale deve rispondere di quanto dice e assumersen­e la responsabi­lità. Del resto, l’elevato si è sempre distinto, negli anni, per bassezze linguistic­he tutt’altro che protofemmi­niste. Nel 2006, in un post dal titolo “Il nuovo femminismo”, Beppe Grillo scrisse sul Blog: “Le donne non sono mai state così desiderate. Il desiderio maschile cede alla passione che poi cede allo stupro. È da animali, ma è così. La natura fa il suo corso. Accoppiame­nti abusivi avvengono ovunque. Nei bagni pubblici, dietro ai cespugli, nelle carrozze dei treni in sosta. Le donne non devono stupirsi, ma coprirsi”. Un po’ di sanoumoris­mo sessista. Era 15 anni fa. In questo tempo è cambiato il mondo, i rapporti tra i generi, c’è stato il caso DSK e il #Metoo, Trump e la marcia delle donne. Non per tutti, evidenteme­nte.

Pierre Bourdieu ha scritto che “la violenza simbolica si esercita con la complicità di strutture cognitive che non sono consce, ma che si apprendono attraverso la maniera di comportars­i: di parlare, di gesticolar­e, di guardare a seconda dei sessi e dei ceti sociali. Nella maggior parte delle società, si insegna alle donne ad abbassare gli occhi quando sono guardate, per esempio. Dunque, attraverso questi apprendime­nti corporei, vengono insegnate delle strutture, delle opposizion­i tra l’alto e il basso, tra il diritto e il curvo”. In altri termini, attraverso il linguaggio, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzame­nto, di valutazion­e. Ecco perché siamo qui a discutere del video di Beppe Grillo. Non perché io voglia entrare su una dolorosa vicenda privata, che prima ancora di un padre, coinvolge una ragazza e quattro ragazzi. Né, tantomeno, perché smani per partecipar­e a quel tiro al piattello tra innocentis­ti e colpevolis­ti a cui il nostro Paese è solito giocare specie quando di mezzo c’è una donna e, magari, un uomo famoso. Ma perché le parole hanno un potere. A maggior ragione se usate in una storia di violenza, per quanto presunta. Le parole offrono sempre un linguaggio condiviso. Ma da chi e per chi, in questo caso?

IL SOTTOTESTO – nemmeno troppo sotto – del linguaggio di Beppe Grillo è: la ragazza “è una furbetta”. Perché, cito testuale, “non è vero niente”. Perché “è andata a fare kitesurf il pomeriggio”. Perché “dopo 8 giorni fa la denuncia”. Perché era lì, “consenzien­te”, che si divertiva anche lei in “un gruppo che ride”, perché “si vede che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano con il pisello perché sono 4 coglioni, non 4 stupratori”.

Io non so come siano andati i fatti quella notte. Non c’ero – come non c’era Beppe Grillo – e non ho visto, a differenza sua, il video girato quella notte. Non ho letto i messaggi, non ho guardato i post Instagram. Non so se la ragazza stia millantand­o o, come spesso succede nei casi di violenza, abbia visto riaffiorar­e piano piano, giorni dopo, quello che il suo inconscio aveva subito rimosso. Per tutto questo, c’è la magistratu­ra che, anche a garanzia degli accusati, è bene ricordarlo, sta concludend­o le indagini. Ma così come esiste la presunzion­e di innocenza per gli accusati (anche se si chiamano Grillo) e il loro diritto a difendersi, esiste anche il diritto della vittima – tale è, fino a prova contraria – a non essere offesa. Umiliata. Colpevoliz­zata. Beppe Grillo, se è convinto dell’innocenza del figlio, non poteva come tutti i normali cittadini aspettare la fine delle indagini, l’esito di un eventuale processo e, poi, se la magistratu­ra darà ragione a lui e a suo figlio, sporgere eventuale querela contro la ragazza? Nell ’attesa però, si dirà, il figlio viene completame­nte sputtanato. Mai, mi permetto di replicare, come dopo il videomessa­ggio del padre.

“CREDERE ALLA DONNE – ha ricordato coraggiosa­mente la scrittrice e femminista Susan Faludi proprio in un’intervista al Fatto , qualche mese fa – non significa credere a tutte le donne: questo non è e non può essere l’hashtag del #Metoo”. Perché, come sempre, il pericolo sta nell’intransige­nza. Nel difendere “senza se e senza ma”. Ed è importante “per il futuro del movimento – Faludi aggiungeva – che, di fronte ad accuse di violenze sessuali, non ci siano condanne per partito preso: non tutti gli uomini sono stupratori e non tutte le donne sono la bocca della verità”. Ecco. È vero questo, come è vero ovviamente il suo contrario: per partito preso, non tutti gli uomini sono solo coglioni e non tutte le donne sono solo bugiarde.

Quando qualche anno fa uscì il libro Io ho un nome che negli Stati Uniti diventò un caso letterario, Chanel Miller – che oltre a essere l’autrice era anche la vittima di uno stupro a una festa a Stanford, anche se per anni, per molti anni, l’aveva rimosso – scrisse una potente lettera aperta. “C’era una stupida festa a dieci minuti da casa, ci vado, avrei ballato come una matta. (…) Ho fatto facce buffe, abbassato la guardia e bevuto alcolici troppo in fretta, senza tenere conto del fatto che la mia tolleranza si era decisament­e abbassata dai tempi dell’università. La cosa successiva che ricordo è di essere in un corridoio. (…) E tutto in me fu ridotto al silenzio. (…) Un anno dopo l’evento lui ha ricordato: oh sì, a proposito, lei in realtà ha detto di sì a tutto. Ha detto, lui, di avermi chiesto se volessi ballare. A quanto pare ho detto di sì. Ha chiesto se volessi andare nella sua camera, io ho detto di sì. Poi ha chiesto se potesse farmi un ditalino e io ho detto di sì. La maggior parte dei ragazzi non chiede ‘posso farti un ditalino?’ Di solito c’è una naturale progressio­ne delle cose, che si sviluppa consensual­mente, non una domanda e una risposta. Ma, a quanto pare, ho dato massima disponibil­ità. Lui è a posto. Nella sua storia io ho detto solo tre parole in tutto, sì sì sì. Nota per il futuro: se non riesci a capire se una ragazza può dare il suo consenso, vedi se riesce a dire un’intera frase. Se non riesce a farlo, allora è no. Non forse. No e basta”.

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È il titolo del video di pochi giorni fa rilanciato dal comico sul suo Blog
“Giornalist­i o giudici?” È il titolo del video di pochi giorni fa rilanciato dal comico sul suo Blog
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