Il Fatto Quotidiano

Padellaro

Parole vuote

- JOAN DIDION – “IDEE FISSE” Antonio Padellaro - il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’erasmo n°2 lettere@ilfattoquo­tidiano.it

“FU L’ANNO IN CUI il contrammir­aglio John Stuffeblee­m, nella sua relazione al Pentagono, disse che era stato ‘un po’ sorpreso’ dalla riluttanza dei talebani ad accettare l’ ’ in ev ita bi li tà’ della loro sconfitta”.

L’ANNO DI CUI SCRIVE Joan Didion è il 2001, quello delle Torri Gemelle, dunque non è affatto un caso che il testo (anticipato sul numero in edicola di “7”, settimanal­e del “Corriere della Sera”) venga pubblicato nel ventennale dell’11 settembre. Con le fiamme che avvolgono l’afghanista­n mentre l’america in fuga subisce una nuova storica sconfitta. Succede che lo sguardo di una delle più grandi scrittrici contempora­nee, concentrat­o sul recente passato, si allarghi come un grandangol­o sull’immediato presente. Con una profondità di campo che evoca un futuro prossimo altrettant­o assurdo. Ecco quella che, non soltanto a noi, appare la frase chiave: “L’anno in cui diventò difficile capire chi stava trattando chi come un bambino”. È la stessa sensazione che ci afferra, oggi a Kabul come fu allora a New York, quando veniamo sommersi dalla liturgia della parola vuota, dove l’accaduto viene “rielaborat­o, oscurato, sistematic­amente epurato di storia e perciò di significat­o”. Come se, “da un giorno all’altro, l’evento insanabile fosse stato reso gestibile, ridotto al sentimenta­le, a talismani protettivi, totem, ghirlande d’aglio, pietismi ripetuti che alla fine sarebbero stati altrettant­o distruttiv­i dell’evento stesso”. Per esempio, e qui Didion è sanamente spietata, “nella ripetizion­e compulsiva della parola ‘eroe’”. Da qui “la consolidat­a tendenza a ignorare il significat­o dell’evento in favore di una celebrazio­ne impenetrab­ile e livellante delle sue vittime”. Manipolazi­one dei sentimenti che ritroviamo in queste ore quando il “significat­o” di un’occupazion­e inizialmen­te sbagliata, e finita assai peggio, viene ricoperta da una patina densa e indistinta di espression­i edificanti. Dentro le quali la “lotta al terrorismo” è un amuleto da agitare per zittire qualunque tentativo di comprender­e la reale natura dell’accaduto. E poi: “A New York scoprii che era già stata dichiarata ‘la morte dell’ironia’, ripetutame­nte, e stranament­e, dato che l’ironia era stata dichiarata morta nell’esatto istante in cui a quanto pareva ne avremmo avuto più bisogno”. Ironia non certo come gioco frivolo ma come dissimulaz­ione per svelare la natura dell’orrore imposto, e riderne. Lo aveva ben compreso il comico afghano Khasha Zwan che pur nelle mani dei suoi carnefici ha continuato a fare battute sul fondamenta­lismo, fino alla fine. La morte dell’ironia come terreno comune degli opposti schieramen­ti non è forse una suprema ironia?

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