Padellaro
Parole vuote
“FU L’ANNO IN CUI il contrammiraglio John Stuffebleem, nella sua relazione al Pentagono, disse che era stato ‘un po’ sorpreso’ dalla riluttanza dei talebani ad accettare l’ ’ in ev ita bi li tà’ della loro sconfitta”.
L’ANNO DI CUI SCRIVE Joan Didion è il 2001, quello delle Torri Gemelle, dunque non è affatto un caso che il testo (anticipato sul numero in edicola di “7”, settimanale del “Corriere della Sera”) venga pubblicato nel ventennale dell’11 settembre. Con le fiamme che avvolgono l’afghanistan mentre l’america in fuga subisce una nuova storica sconfitta. Succede che lo sguardo di una delle più grandi scrittrici contemporanee, concentrato sul recente passato, si allarghi come un grandangolo sull’immediato presente. Con una profondità di campo che evoca un futuro prossimo altrettanto assurdo. Ecco quella che, non soltanto a noi, appare la frase chiave: “L’anno in cui diventò difficile capire chi stava trattando chi come un bambino”. È la stessa sensazione che ci afferra, oggi a Kabul come fu allora a New York, quando veniamo sommersi dalla liturgia della parola vuota, dove l’accaduto viene “rielaborato, oscurato, sistematicamente epurato di storia e perciò di significato”. Come se, “da un giorno all’altro, l’evento insanabile fosse stato reso gestibile, ridotto al sentimentale, a talismani protettivi, totem, ghirlande d’aglio, pietismi ripetuti che alla fine sarebbero stati altrettanto distruttivi dell’evento stesso”. Per esempio, e qui Didion è sanamente spietata, “nella ripetizione compulsiva della parola ‘eroe’”. Da qui “la consolidata tendenza a ignorare il significato dell’evento in favore di una celebrazione impenetrabile e livellante delle sue vittime”. Manipolazione dei sentimenti che ritroviamo in queste ore quando il “significato” di un’occupazione inizialmente sbagliata, e finita assai peggio, viene ricoperta da una patina densa e indistinta di espressioni edificanti. Dentro le quali la “lotta al terrorismo” è un amuleto da agitare per zittire qualunque tentativo di comprendere la reale natura dell’accaduto. E poi: “A New York scoprii che era già stata dichiarata ‘la morte dell’ironia’, ripetutamente, e stranamente, dato che l’ironia era stata dichiarata morta nell’esatto istante in cui a quanto pareva ne avremmo avuto più bisogno”. Ironia non certo come gioco frivolo ma come dissimulazione per svelare la natura dell’orrore imposto, e riderne. Lo aveva ben compreso il comico afghano Khasha Zwan che pur nelle mani dei suoi carnefici ha continuato a fare battute sul fondamentalismo, fino alla fine. La morte dell’ironia come terreno comune degli opposti schieramenti non è forse una suprema ironia?