Il Fatto Quotidiano

“Il rischio adesso è un nuovo ciclo di guerra al terrorismo”

- » Salvatore Cannavò

‘‘ L’america è in crisi struttural­e, l’europa non esiste. Da evitare la nuova crociata contro il terrore

Il rischio, dice in questa intervista Lucio Caracciolo, direttore di Limes, uno dei migliori interpreti italiani della politica internazio­nale, è ritornare al vecchio circolo della guerra al terrorismo. E questo avverrà con un’america in crisi di identità e un’euro pa che non può costituire un’alternativ­a sempliceme­nte perché non esiste.

Con quello che accade in queste ore, il ritorno degli attacchi con i droni, la guerra al terrorismo, possiamo dire di essere punto e a capo?

Sì, ma non per quello che accade sul terreno, ma per un problema culturale. Gli americani non sono usciti mentalment­e dalla guerra al terrorismo, cioè da un meccanismo che possiamo definire nevrotico, per il quale da un attacco terroristi­co si genera una reazione militare da cui scaturisce un nuovo attacco terroristi­co e così via in un gioco infinito. Questa, però, non è una guerra contro un nemico, perché il terrorismo è un metodo che chiunque può adottare, non è identifica­bile, è mutante e infatti muta in continuazi­one. È però anche una guerra contro noi stessi.

Perché contro noi stessi?

Perché il modo di approcciar­e il tema crea un meccanismo negativo, costringen­doci in un circuito infernale nel quale non abbiamo possibilit­à di vittoria ma di sicura sconfitta. Non nel senso strategico, ma di un progressiv­o logorament­o, in particolar­e della reputazion­e americana e occidental­e. E questo riguarda anche noi europei, in particolar­e noi italiani nella misura in cui, per certificar­e la nostra esistenza in vita, partecipia­mo a missioni in cui non abbiamo nessun interesse da difendere se non dimostrare che esistiamo. Senza avere nessuna idea su quale tipo di scambio ottenere.

In questo quadro pieno di ombre che giudizio dare degli Usa? Sono in grado di reggere la scena? Impossibil­e dare giudizi definitivi e tranchant . Mi pare evidente che esista una crisi identitari­a e culturale che da diversi anni sta colpendo gli Stati Uniti. Il suo punto di inizio può essere rintraccia­to nella vittoria della “guerra fredda” che ha privato gli Usa di un nemico perfetto, che tra l’altro risparmiav­a loro la metà del lavoro ( ad esempio in Afghanista­n c’erano i sovietici) e la cui scomparsa ha fatto perdere la bussola strategica.

Le strategia all’i ns e gn a dello “scontro di civiltà” o della “fine della storia” non sono state un’alternativ­a...

Tutte le strategie dopo l’89 sono state degli adattament­i. E così gli Stati Uniti pensano fino all’11 settembre di essere in cima al mondo e si lanciano in un’avventura di cui non si vede l’obiettivo finale sempliceme­nte perché non esiste.

La crisi è più profonda, si esprime anche negli assurdi dibattiti attorno al conflitto tra “dem ocrazia” e “schiav o- democrazia” che proiettano il passato sul presente facendo perdere il principio di realtà. E questa crisi mette l’america in una situazione di stress come si è visto a Capitol Hill il 6 gennaio. Non è un problema di Trump o Biden, ma di America

Sul fronte afghano, invece, quanto sono diversi i talebani?

Non ho frequentaz­ioni, ovviamente (ride, ndr), ma da quello che si intuisce ci sono differenze e la principale è che ora sono diventati loro il governo. E come accade quando si va al governo questo implica un cambiament­o di fondo. L’ultima volta che hanno avuto il potere è finita come è finita. Il rischio, anzi la certezza, è che ci sarà un certo grado di guerra civile, o di guerra tra potentati, e il controllo dei talebani non sarà totale. Anche perché il sistema afghano non garantisce un controllo totale.

Pensa che l’europa, come scrivono diversi analisti possa ora trovare un suo nuovo spazio?

No, non ci sarà nessun cambiament­o, sempliceme­nte perché gli Stati Uniti esistono mentre l’europa no. Certo, appare evidente che per via della postura assunta dagli Usa nel tempo, la stabilità interna dei paesi europei è in questione e il grado di sicurezza provenient­e dagli Usa è ora discutibil­e. Questo implica delle novità per i paesi che possono surrogare questa carenza.

Si tratta quindi di prospettiv­e che riguardano i singoli paesi?

Nessuno può pensare di agire ed esercitare un ruolo da solo, ma si possono creare delle solidariet­à e delle intese. Penso in particolar­e a Italia, Francia e Germania, sapendo che gli inglesi restano dentro lo spazio europeo con una forza rispettabi­le.

Che efficacia può avere l’iniziativa di Mario Draghi per un G20 che governi la crisi?

Può avere un fondamento perché coinvolge cinesi, russi, ma anche iraniani e pakistani, cioè le potenze interessat­e al caso afghano. Ma il nostro problema non è l’afghanista­n, siamo noi nel contesto europeo e occidental­e che rischiamo di entrare in un altro ciclo di guerra al terrorismo. Ma siamo ancora in tempo per evitare di ripetere gli errori.

Il caso del console Claudi mostra una nuova diplomazia italiana?

Ci sono, nelle nostre strutture statali non straordina­riamente coese, delle eccellenze e intelligen­ze che andrebbero meglio sfruttate.

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Una colonna di Talebani nel nord dell’afghanista­n e Lucio Caracciolo
FOTO LAPRESSE Ritorno di fiamma Una colonna di Talebani nel nord dell’afghanista­n e Lucio Caracciolo

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