“L’altra medaglia italiana: aiutare chi cerca libertà”
“85 bimbi, 200 rifugiati, lacrime copiose e un’infinita dignità”
Cara Selvaggia, questo è il mio diario di una pagina di vita indelebile. Sanremo, 23 agosto 2021. Sveglia alle quattro. Quattro come le ore dormite. Il telefono della compagna di stanza suona e ci allerta che stanno arrivando. L’adrenalina non fa sentire le poche ore di sonno e la tensione dei preparativi della giornata precedente. Nel buio si parte attraversando la città ancora addormentata. La struttura ospitante la base logistica dell’esercito e quelle di prima accoglienza preparate da Croce Rossa sono pronte. Tutto e tutti ai propri posti. I 5 pullman partiti da Roma sosteranno all’ultimo autogrill autostradale. Poi, uno per volta, entreranno a Sanremo, consegnando il prezioso carico umano: 206 rifugiati afghani di cui 85 minori. Energia alle stelle, non sappiamo cosa aspettarci e se saremo capaci di gestire le emozioni. Fortunatamente, tra di noi, ci sono volontari più esperti che ci infondono sicurezza. Arriva il primo autobus.
Anime scure in lunghi abiti scendono in fila, nella poca luce e nel totale silenzio del vicinato dormiente. Anche nel buio si percepisce la loro preoccupazione e il senso di tranquillità per il pericolo scampato nella terra natìa. Sono raggruppati per nucleo familiare: alcuni formati da tre/quattro persone, altri più numerosi con i nonni al seguito. Rispettosi ed educatissimi, si attengono scrupolosamente alle prescrizioni impartite per evitare assembramenti. Si muovono compatti come se avessero paura di perdersi. Loro stessi sono tutto quello che hanno. Bagagli quasi inesistenti. Ricordi e affetti di vita vissuta chiusi in una valigia e in qualche sacchetto della spesa: il nulla. L’unico valore che possiedono è la famiglia stessa. Iniziamo con le operazioni di verifica di presenza del nucleo familiare, poi la misurazione della temperatura, cambio della mascherina e disinfezione delle mani.
C’è imbarazzo nel comunicare. Loro hanno motivo di essere più spauriti di noi. Noi siamo “apparecchiati” con camici e tute di protezione, guanti e visiera. Chissà che idea si saranno fatti di noi. Ma l’importante è proteggere loro da questo virus immortale. Si accenna qualche parola di inglese. Sono molto timorosi ma conservano nello sguardo e nel portamento un decoro fiero. Le donne, timidissime, sempre un passo indietro, con una parte del volto coperta. Tutti pronunciano i loro difficilissimi nomi con un filo di voce, quasi sussurrato. Alcuni capofamiglia parlano italiano, sono coloro che probabilmente hanno lavorato nel consolato e sono i meno impacciati, forse abituati all’esuberanza degli italiani. Pian pianino ci scambiamo qualche sorriso e anche le donne, pronunciando il loro nome, svelano timidi sorrisi e dolci lineamenti. I bambini poi sciolgono velocemente il ghiaccio della diffidenza, grazie alla naturale e irrefrenabile curiosità. Con le famiglie verso il “check” anche noi diventiamo meno ingessati, riusciamo a comprendere e distinguere meglio questi nomi simili tra loro. Gli uomini sono quasi tutti Mohammad più il 2º nome. Le donne hanno nomi diversi tra loro, più facili da decifrare. Abbiamo meno ansia di “traumatizzarli” con la fredda burocraziama tutto fila liscio. L’associazione nazionale è “cintura nera” nelle emergenze umanitarie. Ha una organizzazione collaudata alla perfezione: tutto pianificato, pochi margini di errore. Nel frattempo, arriva anche l’alba e con la luce i nostri e i loro occhi si incrociano con più fiducia, anche perché gli ospiti sono confortati dal percorso già compiuto dagli altri compagni di viaggio. Alle 9 tutti sono stati accompagnati nelle camere assegnate, rifocillati con la colazione emuniti di abbigliamenti basico/intimo e prodotti per l’igiene personale.
Quello che non potrò mai dimenticare sono i visi di alcuni uomini, spesso ragazzi, che ostentavano una sicurezza tradita dal tremore delle mani nel ricevere il gel per disinfettarle; gli occhi chiusi, strizzati, e il collo voltato di lato delle donne quando ci si avvicinava al viso con il termoscanner per misurare la temperatura; la gioia dei bambini quando sono arrivati al tendone per la distribuzione dei giochi: sono usciti pieni di giocattoli e peluches. Saranno il loro svago nei 10 giorni di quarantena fiduciaria nelle proprie stanze. Loro sono i più contenti, ignorando il tempo da trascorrere senza poter uscire. Gli adulti sono pazientemente rassegnati, ma sicuramente confortati dal pensiero di essere al sicuro con la famiglia al seguito. Alcuni di loro mostrano sul viso la speranza di una vita migliore. In altri si legge la tristezza, forse la consapevolezza, di dover ripartire da zero (forse da ultimi) in un altro Paese con altri problemi, per riconquistare i propri diritti sociali.
Con alcuni colleghi alla fine di questa prima parte della giornata ci siamo scambiati delle impressioni. Tutti con il ricordo forte dei sorrisi dei bambini, dell’incertezza visibile negli adulti accompagnata da una dignità disarmante. Anche i nostri occhi hanno fatto fatica, le lacrime sono state difficili da trattenere.
Grazie alla Croce Rossa Italiana tutta e ai miei compagni di esperienza per avermi regalato questo privilegio. Una lezione di vita indimenticabile.
Cara C., grazie per averci regalato questo piccolo racconto che sa di umanità e accoglienza. Il pensiero va inevitabilmente a chi, rimasto in Afghanistan, non è riuscito neppure a guadagnarsi la paura dell'incertezza, in un altro Paese.