Mario “riferimento” progressista vuole fare solo il tutor di Giorgia
L’ILLUSIONE CENTRISTA Gli appelli di Renzi, Calenda e vari dem non sfondano: il premier lavora per accreditare la Meloni
Il “no” di Mario Draghi all’ipotesi di un secondo mandato viene presa con leggerezza dai suoi principali sostenitori. Consapevoli del fatto che quel diniego faccia venir meno un pezzo importante della loro strategia politica i vari Calenda, Renzi e Di Maio fanno buon viso a cattivo gioco.
Il più diretto è Carlo Calenda che sicuro afferma che il presidente del Consiglio “non poteva dire altro”. Come se, invece, dopo quell’affermazione potesse tranquillamente tornare indietro e accettare un mandato se le elezioni non andranno come dicono i sondaggi. Draghi ha già dimostrato una certa disinvoltura - prima della caduta del Conte 2 giurava che lui al governo non ci stava pensando affatto - ma un altro ripensamento sembra poco probabile. Luigi Di Maio, sorridente, dice che se l’aspettava mentre Matteo Renzi utilizza la sortita del premier per chiedere voti: “Se prendiamo il 10% se ne riparla”. Tattiche e posizionamenti che poca influenza hanno e che permettono al centrodestra, perlomeno a Forza Italia che dal “terzo polo” (che in realtà è il quarto) di Calenda e Renzi si sente insidiata, di trovare la conferma che il voto alla lista Azione-italia viva non serve a nulla.
FISCHIETTA INVECE il Pd che sembra voltarsi dall’altra parte. Enrico Letta non ha posto la propria candidatura alla presidenza del Consiglio anche per dare l’idea che il voto al Pd sarebbe stato utile a favorire il ritorno di Draghi e alla sua “agenda” ha appeso la campagna elettorale dei dem.
A tradire questa strategia è l’ex capogruppo al Senato, ed ex renziano, Andrea Marcucci, che definisce l’ex presidente della Bce “un riferimento imprescindibile”. Si tratta della replica, speculare, delle parole che utilizzava Nicola Zingaretti per descrivere Giuseppe Conte nel 2019.
Il problema, al di là dei tweet di Marcucci, ormai non più un dirigente di primo piano, è che le parole di Draghi significano soprattutto due cose come fanno notare autorevoli dirigenti del Pd non proprio vicini al presidente del Consiglio. La prima è che dicendosi indisponibile al secondo mandato, al di là della propria persona, Draghi fa capire che l’ipotesi a cui quel mandato è agganciata, cioè il pareggio elettorale, non sta in piedi. Lo dicono i sondaggi, ovviamente, e tutto può ancora accadere, ma non sembra al momento possibile che il centrodestra resti impigliato all’ultimo momento. Certo, come scriviamo nella pagina accanto, il voto al sud potrebbe rappresentare una sorpresa e la rimonta del M5S sta scombinando qualche piano. Ma, ed è la seconda osservazione che filtra dal partito democratico, Draghi ha ormai iniziato a lavorare per essere il “Lord protettore” di Giorgia Meloni alla quale un accreditamento nel mondo economico e finanziario internazionale è utile come il pane. L’ex banchiere centrale sta già pensando al dopo e l’agenda che conta non è quella mitica immaginata da Letta, ma quella, vera, di questi giorni e delle prossime settimane.
DA DOMANI inizia il viaggio a
New York all’assemblea delle Nazioni unite, occasione per molti incontri riservati oltre oceano, che poi è ancora uno dei luoghi decisivi della politica italiana. Parteciperà poi
senz’altro al vertice europeo straordinario sull’energia che si terrà il 6 e 7 ottobre a Praga e probabilmente anche al vertice Ue del 20-21 ottobre visto che il Parlamento si insedierà il 13.
Continuare a raffigurarlo come un “riferimento fortissimo” assomiglia a una pia illusione che comunque deve fare i conti con la campagna elettorale. E gli stessi dirigenti del
Pd ormai non fanno mistero che per puntare al pareggio una vera mano la potrà dare il M5S che ha azzeccato la campagna elettorale “sapendo contrapporre il Parlamento a Draghi e parlando di giustizia sociale”.
In realtà il “riferimento imprescindibile” del Pd dovrebbe essere il “popolo” che però sembra volgersi da un’altra parte.