La Pontida del Salvini calante, assediato dai suoi 3 presidenti
Fontana, Zaia e Fedriga chiedono l’“autonomia” che Matteo non può promettere. Spariscono maglie verdi e spadoni
L’unico tricolore che sventola sul pratone è issato su una lunga asta flessibile in condominio con tre altre bandiere: quella che recita “Salvini premier”; un’altra per dire “Prima l’italia”; e infine, non si sa perché, l’aquila bicipite su fondo rosso dell’albania.
La Lega sarà anche diventata nazionalista, ma al raduno di Pontida i militanti continuano a riconoscersi solo nelle identità locali. Di cantare Fratelli d’italia neanche se ne parla, figuriamoci, per cui la colonna sonora rimane sprovvista di inno nazionale o di partito da quando è finito in archivio il Va pensiero del periodo indipendentista.
PER RAVVIVARE il clima festoso di questa bellissima giornata di fine estate, nell’attesa dei comizi, dal palco trasmettono solo canzonette. Inutile cercare tra la folla i vecchi personaggi folkloristici che esibivano spadoni, armature, kilt ed elmi celtici dalle lunghe corna. Fortunatamente gli stand si differenziano nell’offerta di specialità gastronomiche regionali, perché anche i gadget si attengono a un’assoluta uniformità: magliette azzurre col volto del capo e la scritta “Credo in Matteo”. Segno di devozione, ma un po’ debole come slogan. Tra i dirigenti, solo Calderoli ne indosserà una. Gli altri hanno rinunciato a esibire le divise d’ordinanza del tempo che fu.
C’è l’allegria del ritrovarsi in tanti, la Lega resta un autentico movimento popolare, ma sottotraccia avverti la nostalgia del nordismo insieme all’amara constatazione di quale esito infausto abbia avuto la svolta nazionalista: spianare la strada a Giorgia Meloni.
Di fronte al palco compare uno striscione che suona da gentile avvertimento: “Il 98,1% dei Veneti vuole L’AUTONOMIA. Salvini Ormai semo strachi. RAGIONACI SOPRA!!!”.
La traduzione politica arriverà nel discorso di Luca Zaia, che a Salvini non riserva neanche una citazione di cortesia: “Siamo più bravi di Roma, è da 50 anni che aspettiamo di essere padroni a casa nostra. L’autonomia vale anche la messa in discussione di un governo”. Dicono cose simili il trentino Fugatti (“Pontida è il cuore
LE DUE ANIME
pulsante del federalismo”) e il friulano Fedriga (“la Lega deve essere la forza di garanzia del territorio”), ma anche il lombardo Fontana (“le regioni funzionano meglio dello Stato”). Sono, certo, prese di distanze dal centralismo di FDI. Ma suonano anche come diffida a Salvini: non ci accontenteremo di fare la ruota di scorta del governo, se arretriamo troppo nei nostri territori, pur di recuperare la spinta autonomista perduta siamo disposti a tornare all’opposizione.
Vedere per credere, è tutta gente che al governo ci sta benone da anni. La Lega si lamenta, dal palco Giorgetti denuncia di aver avuto le mani legate nelle coalizioni, ma intanto hanno mantenuto ministri in carica per ben più di metà della legislatura.
Chi si accorge dell’aria che tira è Roberto Calderoli che difatti non gliele manda a dire: “Resto perplesso quando sento Zaia e Fontana lamentarsi. Ci resto male perché non riconoscono i passi avanti che abbiamo fatto dal tempo in cui mio nonno diceva che Bergamo è nazione, tutto il resto meridione”.
Quando tocca a lui, Salvini non può che bluffare, ora che la malaugurata idea di inserire nel simbolo elettorale l’obiettivo della sua premiership si rivela temerario: “Per me sarebbe un onore essere scelto da Mattarella come premier e prendere per mano questo Paese”. Non ci crede più nessuno, e lo sa benissimo. Ma l’unica cosa che può ancora assicurare al popolo che gli vuole bene e ai dirigenti innervositi dal probabile, drastico ridimensionamento dei gruppi parlamentari, è per l’appunto una nuova infornata di incarichi ministeriali. Ragion per cui si sbilancia: “Con Giorgia e Silvio governeremo per cinque anni, promesso. Siamo d’accordo su tutto, o quasi”.
TUTTI
i militanti con cui ho parlato prevedono che la Lega pagherà cara la sua partecipazione al governo Draghi, anche se i più cercano di nobilitare il sacrificio compiuto: “Se ne fossimo rimasti fuori sarebbero passai lo ius soli, la patrimoniale e chissà quali altre porcherie”. E poi non dimenticano che Salvini gli ha fatto provare l’ebbrezza della maggioranza relativa, portandosi a rimorchio una classe dirigente che da sola non sarebbe andata da nessuna parte. Quando gli chiedi chi potrebbe prenderne il posto, a esporsi sono solo i pochi che indossano ancora le magliette verdi d’epoca nordista. E l’unico nome che fanno è, per l’appunto, quello di Zaia. Li riconosci per qualche residua scritta eretica, tipo “Spirito veneto” o “Padania is not Italy”. Sono quelli che aspettavano come un segnale il ritorno di Umberto Bossi sul palco di Pontida. Stavolta -bisognosi di un revival autonomista- lo avrebbero gradito anche Salvini e la cerchia che ha emarginato il fondatore. Ma Bossi è una vecchia volpe della politica. Si è fatto desiderare e poi ha dato buca ai perdenti, facendo postare al figlio una foto beffarda della sua festa di compleanno, anticipato di un giorno a bella posta.
E i soldi russi? Qui a Pontida se ne fanno un baffo. Solo un monzese spiritoso mi allunga due banconote del Monopoli scritte in cirillico: “Ecco la prova!”.