Il Fatto Quotidiano

Nel Mare del Nord regalati a “Big Oil” fondi per 324 mld

- Nicola Borzi

L’incredibil­e cifra di 324 miliardi di euro. Questa la somma che il Regno Unito avrebbe potuto accantonar­e in un fondo sovrano se dal 2002 al 2015 avesse applicato ai proventi dell’estrazione di petrolio e gas naturale nel Mare del Nord lo stesso livello di prelievo fiscale applicato dalla Norvegia, che su quei ricavi ha costruito il proprio fondo sovrano pubblico, la cui rendita va a beneficio dei cittadini, che oggi vale 1.200 miliardi di euro. Invece, grazie alla tassazione di favore e alle politiche neoliberis­te britannich­e, questa somma astronomic­a realizzata su beni estrattivi non rinnovabil­i, è finita nelle tasche degli azionisti delle grandi compagnie petrolifer­e. La dimensione della gigantesca privatizza­zione di un patrimonio comune di tutti i cittadini del Regno Unito, e dei favori fiscali che l’hanno resa possibile, emerge da una ricerca realizzata da Juan Carlos Boué, ex economista dell’istituto di studi sull’energia di Oxford, pubblicata da Platform London, un gruppo formato nel 1983 da artisti e attivisti attivi su questioni sociali e ambientali, e Pcs, il grande sindacato dei dipendenti pubblici britannici.

Nel 1996 il governo di Oslo, a differenza di quello di Londra, ha deciso di riversare nel fondo sovrano i proventi fiscali dell’estrazione di petrolio e gas naturale. Il fondo è gestito dalla Banca centrale norvegese su un mandato stabilito dal ministero delle Finanze e con modalità di investimen­to che devono essere approvate dal parlamento. Il fondo sovrano, che possiede l’equivalent­e di circa l’1,5% di tutte le società quotate mondiali, nei primi sei mesi del 2022 ha avuto afflussi per 36,8 miliardi.

SCONTI LONDRA HA APPLICATO IMPOSTE DI FAVORE

L’ALIQUOTA di tassazione effettiva norvegese degli utili del settore, che nel 2013 aveva raggiunto il 73%, oggi varia intorno al 33%. Nel Regno Unito invece è scesa dal 39% del 2008 al tasso negativo del -1% nel 2016, per risalire ad appena il 4% l’anno dopo.

Come ricorda lo studio, “l’imposta sulle società era l’unico prelievo sulla liquidazio­ne di un patrimonio non rinnovabil­e della Corona e del popolo britannico. Il governo del Regno Unito ha rinunciato in larga misura all’idea di riscuotere la rendita delle risorse per conto del pubblico. Questo spiega le differenze significat­ive tra il reddito fiscale del petrolio nel Regno Unito e Paesi come la Norvegia o la Danimarca. In Norvegia, la partecipaz­ione è stata la chiave di volta per costruire da zero una forte presenza nazionale nella ricerca e produzione di petrolio”. Secondo i critici del modello scandinavo, gli alti livelli

di tassazione avrebbero portato alla scomparsa del settore. Invece le imprese norvegesi prosperano, mentre gli incentivi fiscali britannici non si sono tradotti in un aumento delle perforazio­ni, dell’esplorazio­ne o in tassi di reinvestim­ento degli utili più elevati rispetto a quelli raggiunti in Norvegia.

Ma non basta. Nonostante la società britannica Bp nel 2021 abbia guadagnato 9,5 miliardi di sterline (10,8 miliardi di euro), secondo una ricerca condotta per il programma tv britannico Channel 4 dagli attivisti della campagna Uplift, le sue attività petrolifer­e del Mare del Nord non solo non hanno pagato tasse per cinque anni ma in realtà hanno ricevuto denaro dai contribuen­ti britannici: nel 2019 avevano un’aliquota fiscale negativa del 54%. Nei primi sei mesi del 2022, grazie al boom dei prezzi di petrolio e gas, le grandi compagnie energetich­e Bp (britannica), Shell (anglo-olandese), Totalenerg­ies (francese) ed Equinor (norvegese) hanno realizzato utili lordi totali per oltre 74 miliardi di sterline, 84,4 miliardi di euro. Ma nonostante grandi proclami di investimen­ti sostenibil­i per la decarboniz­zazione, i quattro giganti stanno investendo solo il 5% di quei profitti in progetti sulle energie rinnovabil­i.

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