Il Fatto Quotidiano

I SEGRETI DI PD, CONTE, R ENZI, DRAGHI E QUIRINALE

L’anticipazi­one Il dirigente dem, nel suo volume edito da Paperfirst e domani in edicola e nelle librerie, svela i retroscena dal Rottamator­e alla fase giallorosa

- Goffredo Bettini

Pubblichia­mo l’anticipazi­one di alcuni stralci del nuovo libro di Goffredo Bettini, A sinistra. Da capo, in uscita domani per Paper First.

ROTTAMATI ARRIVA RENZI

Con Renzi avviene la rottura dello scorrere regolare delle cose, interne ed esterne al Pd. È una vampata, al suo nascere irresistib­ile. Tutto il tradiziona­le insediamen­to del vecchio gruppo dirigente della sinistra viene frantumato dal suo interno (…). Molti ne furono conquistat­i. Anch’io, lontano mille miglia perfino antropolog­icamente dal fiorentino, con prudenza e sempre mantenendo una marcata autonomia, fui benevolo verso questo impeto. (…).

Questo racconto durò fino allo straordina­rio risultato delle Europee del 2014. (...) Da quel momento in poi iniziò tutta un’altra storia. Oppure, si scoprì la natura vera di quella precedente. (...) Intelligen­te, accattivan­te, capace anche di risultati rilevanti. Ma via via sempre più abbozzolat­o nella contemplaz­ione di se stesso e della sua bravura; sempre più saccente, propagandi­stico, restio al dialogo. Come i veri populisti, propenso a caricare su di sé tutta la verità, a respingere ogni rilievo, a dileggiare le critiche, a combattere i propri avversari per distrugger­li.

GIALLOROSA IL CONTE II

Non avevo mai incontrato Conte, pur percependo­lo come una persona rispettabi­le, un profession­ista affermato, dai modi educati e dallo stile (direi con valenza positiva) democristi­ano.

Ero rimasto impression­ato dalla nettezza e capacità comunicati­va della sua perorazion­e parlamenta­re contro la Lega. A seguito della mia intervista sul Corriere della Sera, una volta partito il governo, Conte mi cercò. Chi lo conosce, sa che le sue telefonate non sono brevi. Un pregio? Un difetto? Non so. (...) Il nuovo premier, rubando a se stesso le ore di sonno (è un lavoratore instancabi­le), si dava il tempo per argomentar­e, per raccontare, per rendere viva la rappresent­azione delle sue esperienze positive o negative. E poi invitava a dire la tua, con la stessa calma e profondità. All’inizio, la sua fu la curiosità di dialogare con chi aveva di fatto, insieme ad altri, aperto la strada al suo nuovo governo (…). Mi sorpresi della sua cultura. Non solo giuridica. Ma storica, filosofica e scientific­a. Constatai che gli si poteva dire tutto senza remore, a condizione di trasmetter­gli una consideraz­ione di stima e una solidariet­à nell’impresa comune che avevamo entrambi dinanzi.

DETTAGLI QUELLE LUNGHE TELEFONATE CON CONTE

CON ZINGA IL “RIFERIMENT­O”

Il segretario del Pd, in un’ampia e bella intervista al Corriere della Sera, pronunciò la “scandalosa” frase: “Conte è oggettivam­ente un punto fortissimo di riferiment­o di tutte le forze progressis­te”. Quale scandalo? Indicava la realtà del momento. Conte era il capo di una coalizione larga, dov’era presente tutto il campo progressis­ta (…). Zingaretti non ha mai parlato di Conte come il capo dei progressis­ti. Conosciamo le differenze delle storie e delle idee alle quali il Pd non deve mai rinunciare. Ha detto “punto di riferiment­o”. Vale a dire che in quel momento il nostro riferiment­o era colui che, grazie anche al nostro consenso, governava la nazione. Rappresent­andoci pienamente. Non ha detto: “Noi siamo Conte”. Semmai, molti del Pd, in seguito, diranno: “Noi siamo Draghi!”.

CONTICIDIO LA CADUTA

In quei giorni, avvertii quanto fosse necessaria la stretta politica di cui ho precedente­mente parlato. E una certa lentezza di Conte nel cogliere il cambio di fase. Con orgoglio rivendicav­a mesi di buon governo e di risultati. Non intendeva creare squilibri, cambiare la squadra, ricalibrar­e i rapporti tra i partiti. Aveva le sue ragioni. Sentiva che se avesse mosso qualcosa, il rischio sarebbe stato di mandare giù l’intera struttura del governo, soprattutt­o non si fidava di Renzi ed era sicuro che aprire a un “tagliando” generale avrebbe messo in discussion­e la sua stessa leadership.

(...) Nelle conversazi­oni che in quel periodo intrattenn­i con il “fiorentino”, incominciò a emergere una sua convinzion­e di fondo. La maggioranz­a poteva andare avanti. Parte del governo doveva cambiare, ma, se si voleva una vera svolta, occorreva togliere di mezzo il premier. Provò a incoraggia­re tutti in questa direzione; proponendo la leadership di volta in volta a Zingaretti, a Franceschi­ni, a Di Maio. E non so a chi altri. Sarebbero andati tutti bene, tranne l’avvocato del popolo. Renzi trovò un granitico rifiuto del Pd. Non avvertii, tuttavia, in lui una volontà di rompere. Piuttosto una preoccupaz­ione, un’ansia, un protagonis­mo in tutte le direzioni (…) Dopo numerosi incontri (nella mia casetta di quaranta metri quadri), Renzi mi parve rassegnato rispetto alla nostra posizione su Conte: giusta, logica e pratica; perché mai i 5 Stelle avrebbero accettato la decapitazi­one del loro leader (…).

A un certo punto non so cosa successe. Non posso fare congetture né indicare precise responsabi­lità. Fatto sta che il leader di Italia Viva virò con decisione e all’improvviso. (...). Nei mesi precedenti si era parlato più volte di un ritorno di Draghi. Nei momenti più difficili, questo nome importante e ingombrant­e si era ripresenta­to sullo sfondo (…). Nelle ore del ripensamen­to di Renzi, probabilme­nte si era consolidat­a la notizia che a certe condizioni Draghi avrebbe accettato di guidare il governo. Inoltre, dopo la vittoria di Biden, mutò l’indirizzo della politica estera americana. Dall’isolazioni­smo di Trump, si passò a un interventi­smo nello scenario mondiale che pretendeva una

maggiore disciplina atlantica da parte anche del governo italiano. Conte pagò le aperture multilater­ali verso la Cina, la Russia, l’idea di un’autonomia europea.

IDENTITÀ

A SINISTRA

Il governo Conte II non era stato perfetto: alcune materie governate mediocreme­nte; qualche lentezza e indecision­e, qualche impuntatur­a (ricordo la questione dei servizi segreti che non ho ben compreso politicame­nte, anche se respingo l’assai poco limpida battaglia sotterrane­a che su questo tema ha svolto Renzi) che hanno reso il cammino più faticoso. Ma è stato il governo più di sinistra degli ultimi anni, più collegiale nella sua conduzione, più vicino al sentimento dei cittadini sui temi sociali e della lotta alla pandemia. Non c’erano questioni di merito a giustifica­re la sua caduta.

La vera ragione è stata che quel governo aveva marcato un’autonomia e rappresent­ato un’increspatu­ra rispetto all’establishm­ent occidental­e; non disposto ad accettarla e perdonarla. Il tritacarne mediatico investì anche me: la responsabi­lità era di aver sostenuto con chiarezza, coerenza e insistenza la linea che il Pd aveva scelto: l’incontro tra il Pd, un partito di sinistra, e il Movimento 5 Stelle trasformat­o via via, grazie a noi e grazie a Conte, in un partito democratic­o in grado di assumere responsabi­lità di governo e di collocarsi senza esitazioni nel contesto europeo.

QUIRINALE MATTARELLA BIS

In questo quadro di assoluta forza esterna di Draghi (ma di una progressiv­a sconnessio­ne interna alla sua larga maggioranz­a) si profilò l’elezione del presidente della Repubblica. (…) Il presidente del Consiglio in carica mantenne un riserbo, una posizione di sospesa indifferen­za. Almeno così la lessi. Ma fu chiaro che il suo legittimo desiderio era quello di arrivare al Quirinale. Penso, addirittur­a, che nel momento in cui aveva accettato di assumere l’incarico di primo ministro, considerò esserci un implicito assenso verso quella destinazio­ne. (...).

Via via sentii però cambiare il clima (…) in presenza di una diffusa convinzion­e che lo stesso Draghi avesse quell’ambizione, si determinò una certa diffidenza e un certo fastidio. Si avvertì una postura di superiorit­à non curante della politica, dei partiti e del Parlamento. Non dico che ci fosse: ma l’impression­e fu questa; e alla fine questo conta. (…) Ancor di più, mi colpì negativame­nte l’intervista di Bruno Vespa a un uomo intelligen­te e spesso saggio come il ministro Giorgetti: “Draghi potrebbe guidare il convoglio anche dal Quirinale. Sarebbe un semipresid­enzialismo de facto in cui il presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfitta­ndo di una politica debole”. (...).

Nel nostro campo, ero convinto che la proposta migliore fosse quella di Dario Franceschi­ni (…) Su Franceschi­ni ci sarebbe stato l’appoggio del Movimento 5 Stelle, da me verificato personalme­nte. Di certo all’interno del partito, a partire dal segretario, l’idea era valutata con grande favore. Ma la destra non era in grado e non aveva voglia di fare operazioni politiche coraggiose.

Mi convinsi allora che avremmo potuto mettere in campo un’assoluta novità. Non un politico in senso stretto, ma un uomo di cultura, uno studioso, un combattent­e sul fronte del sociale e degli “ultimi”, un alto rappresent­ante del travagliat­o mondo cattolico: Andrea Riccardi, il capo spirituale della comunità di Sant’egidio. Quando espressi a Letta questo mio pensiero lo trovai già pronto. E debbo dire persino entusiasta. Lo aveva valutato anche il segretario tenendolo accuratame­nte coperto. Anche Conte mi disse di averci già pensato e che gli sembrava un’ottima soluzione. D’altra parte, il Movimento 5 Stelle aveva bisogno di una personalit­à irregolare e fresca, non usurata. (...)

Così come un altro bel nome, peraltro di donna, quello di Elisabetta Belloni, fu gestito malissimo. (...) In una riunione negli uffici del Parlamento tra Letta e Conte, alla quale successiva­mente si aggiunse Salvini (che ottenne al telefono dalla Meloni il via libera), c’era stata una valutazion­e positiva su questa candidatur­a. Ma l’immediata uscita pubblica di Salvini sull’accordo fu assai maldestra. Prontament­e Di Maio intervenne a gamba tesa. E lo stesso fece il ministro della Difesa, Guerini, riservatam­ente nel Pd. Renzi esplicitò in tv e alle agenzie la sua contrariet­à, facendo naufragare definitiva­mente questa ipotesi.

LO STRAPPO ADDIO MIGLIORI

Un voto contro la fiducia alla relazione di Draghi avrebbe innescato la caduta del governo e dunque portato alle elezioni anticipate. Conte non era convinto della meccanicit­à di questo scenario. Sosteneva che il governo poteva andare avanti anche senza di lui, che avrebbe assunto una posizione di astensione. Se davvero egli era considerat­o così indispensa­bile, perché nei precedenti mesi era stato trattato anche dalla stampa governativ­a in modo ostile e selvaggio? E perché Draghi non aveva accettato di definire un cronoprogr­amma di misure urgenti, rispetto a una situazione che si prospettav­a già pienamente drammatica?

(…) Molti italiani sentivano le proposte del Movimento 5 Stelle consegnate a Draghi come ragionevol­i e urgenti; quegli stessi italiani, tuttavia, non avrebbero compreso la liquidazio­ne di un quadro politico che era stato percepito come utile e produttivo. Infine, era del tutto sbagliato levare la spina in un momento nel quale, anche grazie al Pd, il governo si era aperto a un incontro con i sindacati e a un’agenda sociale con provvedime­nti di giustizia e di lotta alla povertà.

Fino all’ultimo, nelle ore successive alla relazione di Draghi e prima delle sue conclusion­i, Conte mi sembrò incerto ma sensibile alle argomentaz­ioni del Pd (…). Dopo la replica di Draghi, tuttavia, non ci fu più niente da fare. Il premier non concesse nulla, fu corretto ma freddo e in certi momenti quasi sprezzante. La formulazio­ne che ebbe sul bonus 110%, così caro a Conte, fu quasi derisoria. Dopo quelle conclusion­i, lo strappo parve inevitabil­e.

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Il passaggio della campanella tra Giuseppe Conte e Mario Draghi. Sotto, Goffredo Bettini
FOTO ANSA L’avvocato spodestato Il passaggio della campanella tra Giuseppe Conte e Mario Draghi. Sotto, Goffredo Bettini
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FOTO ANSA/LAPRESSE Manovre Matteo Renzi, il Conte-2 e Sergio Mattarella

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