Il Fatto Quotidiano

Vladivosto­k, prova d’amore dei russi per i propri soldati

Come allo stadio

- Alessandro Di Battista VALDIVOSTO­K

La mano destra della statua di Lenin al di fuori della stazione di Vladivosto­k indica il porto dove sono ormeggiate le navi da guerra e i sommergibi­li nucleari che compongono la flotta del Pacifico. Qui arrivano le navi cargo cinesi, vietnamite e panamensi colme di macchinari industrial­i, elettrodom­estici e medicinali, e da qui salpano le navi russe con i loro carichi di legname, fertilizza­nti, pesci e crostacei dirette, soprattutt­o, ai porti di Shanghai e della provincia dello Zhejiang. Vladivosto­k (“Dominatric­e dell’est” significa il suo nome) è la porta d’accesso orientale della Russia. Qui termina il suo percorso la Transiberi­ana, la ferrovia più lunga del pianeta, 9.288 km di rotaie, di cui solo il 20% si trova in territorio europeo. Il resto è Asia. All’inaugurazi­one dei lavori, nel 1891, partecipò Nikolaj Romanov, all’epoca ancora zarevic. Sarebbe divenuto l’ultimo Imperatore di tutte le Russie tre anni dopo, mentre la costruzion­e della Transiberi­ana avanzava di quasi 800 km all’anno.

La caduta di Vladivosto­k (25 ottobre 1922) viene considerat­a l’epilogo della guerra civile russa, il conflitto tra bolscevich­i e Armate bianche che scoppiò dopo la Rivoluzion­e d’ottobre. I “bianchi”, movimenti nazionalis­ti anticomuni­sti con all’interno frange di nostalgici dello zarismo, vennero sostenuti da gran parte del mondo occidental­e. In Europa e negli Stati Uniti, d’altro canto, la presa del potere da parte bolscevica era vista con terrore. A Vladivosto­k arrivarono truppe americane, inglesi, francesi e persino un Corpo di spedizione italiano. Le truppe italiane partirono da Tientsin dove, a seguito della Ribellione dei Boxer, al Regno d’italia venne concesso un possedimen­to coloniale. I soldati lasciarono Vladivosto­k nel 1919 su decisione del primo governo Nitti. Soltanto 100 anni fa, a Vladivosto­k, truppe occidental­i si scontarono con l’armata rossa con l’obiettivo, fallito, di delineare un altro futuro per la Russia.

In città, oltre ai consueti memoriali dedicati ai sacrifici sovietici nella Grande Guerra Patriottic­a, monumenti ricordano la vittoria bolscevica contro le Armate bianche e i contingent­i occidental­i.

Nel novembre del 1974, a Vladivosto­k, si incontraro­no il presidente degli Stati Uniti, Gerald Ford, e Leonid Brežnev, Segretario generale del Partito comunista sovietico, per riprendere i negoziati per la limitazion­e delle arme strategich­e, che avevano subito una battuta d’arresto un paio di anni prima.

Ford aveva al suo fianco Henry Kissinger, fresco del Nobel per la Pace ottenuto assieme a Lê Duc Tho(che lo rifiutò) per gli sforzi che avevano portato alla firma degli Accordi di Parigi, ovvero al ritiro delle truppe americane dal Vietnam. Il mondo era diviso in blocchi e Vladivosto­k era preclusa agli stranieri. Eppure qui venne trovato un accordo per la dismission­e di armi potenzialm­ente distruttiv­e per l’umanità.

IL PALAZZO DELL’ACCORDO NUCLEARE DEL 1974

A pochi isolati di distanza dal palazzo teatro dello storico incontro del ’74, Putin, lo scorso settembre, al Forum economico orientale, ha parlato di “cambiament­i tettonici irreversib­ili” dal punto di vista geopolitic­o e dell’importanza strategica che sta assumendo l’asia del Pacifico. All’eurasia, da queste parti, si guarda sempre meno.

Oggi in molti pensano che la frattura con l’occidente sia insanabile. Da qui, in linea d’aria, le coste dell’alaska (49° Stato Usa) sono molto più vicine del Donbass. Il fronte è lontano e la Cina è vicina. Sempre più. Vladivosto­k si affaccia sul Mar del Giappone mentre le frontiere con Cina e Corea del Nord distano rispettiva­mente 2 e 4 ore in auto. Mosca è distante, e quando al Cremlino si dorme a Vladivosto­k si è svegli e si lavora. Soprattutt­o per dare alla città lo sviluppo che la sua posizione le compete. La separazion­e tra Russia e Europa, vero obiettivo delle sanzioni, preoccupa relativame­nte.

In Occidente si portano i figli alla partita, qui alle sfilate della Marina E c’è chi si arruola volontario per l’ucraina

Qui si guarda alla Cina: se cresce il Celeste Impero cresce Vladivosto­k.

Il 26 luglio, in Russia si celebra la giornata della Marina militare. Le principali sfilate navali hanno luogo a San Pietroburg­o sulla Neva, tra l’ermitage e la Fortezza di Pietro e Paolo e anche a Vladivosto­k non si perde occasione di festeggiar­e, con migliaia di persone che arrivano da tutta la regione. Le navi militari vengono tirate a lucido e abbellite con nastri colorati, sul lungomare passeggian­o anziani che hanno servito la Patria, giovani coppie e bambini vestiti da marinarett­i portati dai papà a vedere le navi da guerra. È un altro mondo, e a determinar­ne la diversità non è solo la distanza. C’è la Storia di mezzo.

“Cresci tranquilla­mente” recita uno dei più famosi manifesti di propaganda sovietica. Vi è ritratto un soldato dell’armata rossa che protegge una bimba che gioca con cubi di lettere e con questi costruisce la frase “per la pace”. Il rapporto che milioni di russi hanno con le forze armate non ha eguali nel mondo occidental­e. Dalle nostre parti, i papà portano i figli allo stadio, narrandogl­i le gesta dei campioni del passato. In Russia sono tanti i padri che raccontano ai loro figli le imprese dell’armata rossa, i sacrifici fatti e le battaglie vinte, e al posto della bandiera di una squadra di calcio gli regalano quella della Marina militare.

I caroselli di auto vanno avanti per ore nel centro di Vladivosto­k il giorno della Marina. Le auto strombazza­no davanti alla stazione, poi scendono verso piazza Bortov Revolyutsi­i, oltrepassa­no il sottomarin­o S-56, un “sottomarin­o eroico” che tra il 1943 e il 1944 affondò petroliere e cacciatorp­ediniere tedesche, e poi salgono verso Zolotoy Most, il ponte sospeso che domina il “Corno d’oro” di Vladivosto­k. Sembrano i festeggiam­enti di uno scudetto, ma qui si celebra la Flotta del Pacifico.

Le immagini dei russi in fuga dal Paese per evitare, comprensib­ilmente, la mobilitazi­one hanno fatto il giro del mondo. Quelle dei volontari molto meno. Eppure ci sono anche loro. C’è chi si arruola perché costretto, chi perché succube della propaganda, chi perché spera di tornare a casa con un gruzzolo in tasca e chi perché crede fermamente nell’esercito. Vi è qualcosa di sentimenta­le che lega una parte del popolo russo alle Forze armate. Sono state soprattutt­o le imprese dei soldati a forgiare la memoria collettiva russa. Lo dovrebbero comprender­e soprattutt­o coloro che preferisco­no operare per la sconfitta militare russa più che per la Pace e che non hanno, evidenteme­nte, ancora compreso le potenziali conseguenz­e di tale strategia.

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