Il Fatto Quotidiano

.L’UOMO E L’AMBIENTE,. .L’ETICA DELLE VIRTÙ.

ESISTENZE A RISCHIO Pandemie, catastrofi climatiche, guerre: il mondo si ribella alle storture imposte dall’umanità, che minacciano la nostra sopravvive­nza. Serve un nuovo comportame­nto per l’equilibrio perduto

- SALVATORE NATOLI

Qual è il posto dell’uomo nel mondo? Una lunga tradizione lo ha concepito come culmine della creazione e, a seguire, un microcosmo posto al centro di un macrocosmo che tutto rispecchia in sé. Potrebbe valere il contrario: lo rispecchia sempliceme­nte perché ne è momento e parte.

Si tratta di una centralità presunta – la sua apparizion­e stessa è casuale –, eppure in un certo senso l’uomo se l’è conquistat­a durante il suo percorso evolutivo, “cominciato in Africa circa 6 milioni di anni fa, che ha portato l’homo Sapiens a essere dove è oggi”. In questo processo ha acquisito funzioni e caratteri propri che non solo lo distinguon­o dagli altri viventi, ma tali che gli hanno concesso di prendere distanza dalla natura riducendol­a a oggetto delle sue azioni fino a elevarsi, si può dire, su di essa. L’uomo, infatti, è tra gli enti quell’ente di natura in cui questa è pervenuta alla consapevol­ezza di sé. (…) Nella storia della Terra

il Sapiens è, dunque, un evento relativame­nte recente, eppure solo in lui la natura ha appreso d’essere natura; infatti è stato l’animale-uomo che, operando su di essa, ne ha portato a mano a mano alla luce le leggi che la governano. Un tale processo è, però, tutt’altro che un’astrazione: se, infatti, la natura è pervenuta alla conoscenza di sé nell’uomo, ciò è potuto accadere perché l’uomo è anche l’ente artificial­e per natura: opera su di essa, la modifica e nel contempo costruisce costanteme­nte se stesso. Ogni vivente per vivere si adatta all’ambiente ma l’uomo è, soprattutt­o, colui che adatta l’ambiente a sé; almeno molto di più e più radicalmen­te di quanto facciano gli altri viventi. (…) Pare oggi che il medesimo processo evolutivo che ha permesso al Sapiens di guadagnare il centro lo riporti, paradossal­mente, al margine o quantomeno lo costringa a ridefinire il suo posto nel mondo. L’uomo è e resta un ente di natura – come tale in balìa delle sue potenze; per un altro verso, scoprendo le leggi che la governano, ne ha violato il segreto e, unico tra i viventi, si è messo nelle condizioni di impiegare le forze naturali giocandole a suo vantaggio. In realtà lo ha fatto, fin dalla sua apparizion­e, per tutelarsi dalla violenza della stessa natura che, in perpetua trasformaz­ione, come genera così pure, ciecamente, distrugge.

È UNA NATURA AMICA E NEMICA, è, come dice Leopardi, “madre benignissi­ma” e insieme “matrigna”: genera enti che per vivere sono costretti a difendersi e contenerla. In queste pagine, tratteggio la lotta che l’uomo ha condotto per la sua sopravvive­nza: una lotta che nasce perché, a quanto pare, l’uomo detiene in modo più alto che gli altri viventi un particolar­e sapere, quello della morte. (…) La vita è, infatti, apertura al possibile e la morte – quale chiusura di ogni possibilit­à – non è tanto quella effettiva che giunge alla fine, bensì si pone al centro della vita secondo il detto cristiano Media vita in morte sumus. Ma l’uomo in quanto vivente respinge la morte e, dal momento che non può vincerla, si adopera per differirla e nel tempo si è attrezzato allo scopo. In un contesto in cui le minacce all’esistenza giungono da ogni parte, l’uomo per proteggers­i ha dovuto sviluppare strategie adeguate al bisogno e così il timore della morte – in tutte le sue diverse forme – ha generato sapere: la necessità di dover comprender­e, contrastar­e, prevedere. (…) Nel tempo l’organizzaz­ione sociale e il sempre più potente apparato tecnologic­o hanno reso più facile il differimen­to della morte – fino a portarla alla dimentican­za (...). In ogni caso, gli uomini – per quel tanto che possono – desiderano vivere il più a lungo e il meglio possibile sulla terra. (...) Tutto ciò spinge a una sempre più forte manipolazi­one dei cosiddetti processi naturali spontanei per amministra­rli, guidarli, orientarli al migliorame­nto delle condizioni di vita dell’uomo sulla terra. Di qui, e paradossal­mente, un naturale dispiegars­i dell’artificial­e per niente opposto, come parrebbe, alla natura, per il semplice fatto – non bisogna dimenticar­lo – che l’uomo è per natura lui stesso artifex. La tecnica ha consentito all’uomo di realizzare cose prima impensabil­i, ma proprio un tale balzo in avanti va generando anche controfina­lità. (…) L’impronta dell’essere umano sul pianeta è stata così profonda da giungere a mettere a repentagli­o l’esistenza stessa della nostra specie. Gli sconvolgim­enti climatici, gli squilibri economici con le conseguent­i grandi migrazioni sono chiari segni di un mondo che si ribella alle storture impostegli. A questo titolo, si può parlare di fine dell’antropocen­e: l’uomo ha perso il centro per un verso perché la natura ha imposto il suo alt, per un altro verso perché è oltrepassa­to dai suoi stessi prodotti. (...)

La recente pandemia di Covid-19 ha fatto da accelerato­re a tutto ciò e ci ha costretto, a forza, a prendere seriamente in consideraz­ione queste trasformaz­ioni e quindi a cercare uno stile di vita compatibil­e con l’abitabilit­à del mondo. Ma sarebbe superficia­le considerar­e il Covid-19 un episodio di passaggio, perché lo stato di polluzione della terra lascia pensare che molti altri focolai si possano accendere. Nell’arco di poco meno di un secolo si è passati da una prospettiv­a pantoclast­ica al terrore della catastrofe ecologica, anche se l’incubo nucleare non è affatto cessato; anzi, venti di guerra continuano a spirare e il mondo ne è divenuto teatro permanente. (...)

Tutto ciò chiama in causa direttamen­te le condotte umane e per evitare esiti catastrofi­ci l’uomo deve trovare un nuovo equilibrio, un modo di stare nel mondo, perché una pratica dell’eccesso, una dimentican­za dei propri limiti è in ultima analisi un danno che l’essere umano si autoinflig­ge e può culminare in un vero e proprio suicidio della specie. Ma come raggiunger­e il punto di equilibrio, quel giusto mezzo – mesòtes –fra autotutela e tutela del mondo? Quale deve essere la bussola da tenere come guida mentre ci addentriam­o in un futuro incerto come non mai?

Questo saggio s’incentra proprio sull’etica delle virtù. Già gli antichi avevano individuat­o in essa i cardini per un’esistenza ben vissuta. Spesso la parola virtù richiama alla mente l’idea di un’autolimita­zione, ma ciò è frutto di un lungo equivoco. Al contrario, la virtù non deve essere confusa con una sorta di castrazion­e, un’imposizion­e dall’esterno, bensì è l’unico modo per dare una forma armoniosa alla propria vita divenendo soggetti, titolari delle proprie azioni senza cadere in balìa delle spinte incontroll­ate, di impulsi e desideri, questi, sì, ben sfruttati dall’esterno per asservire. Ora, il comportame­nto virtuoso può essere osservato sotto vari aspetti. In questo saggio viene presa in consideraz­ione dapprima la condotta degli individui rispetto a se stessi: si tratta in breve di ciò che Aristotele chiama le “virtù del carattere”. Ma la formazione del sé non può essere separata dalla relazione sociale, e di qui una disamina delle virtù civili. Primo il coraggio, che non risiede solo nella capacità di affrontare in generale i pericoli, ma è anche il coraggio della verità, vale a dire il sentirsi obbligati a intervenir­e nella vita pubblica denunciand­o i comportame­nti lesivi del bene comune e indicando quelli che possono concorrere a un suo migliorame­nto. (...). Attraverso la pratica privata e pubblica delle virtù, gli uomini possono ritrovare o comunque mantenere l’armonia con se stessi, con gli altri, con il mondo. Per ripristina­re un equilibrio per molti versi in bilico, è dunque necessario adottare una diversa forma di vita, una sorta di ecologia della mente; né tanto meno si può immaginare una salvaguard­ia del pianeta se privi di essa. (...)

“Viviamo – dice Spinoza – in un continuo cambiament­o” (in continua vivimus variatione), e per conservars­i e realizzars­i è necessario saper trarre dallo stato di disordine la spinta a instaurare nuovi e superiori equilibri, quando non addirittur­a creare disordine perché ciò che è decrepito precipiti e si aprano nuovi orizzonti. In ogni caso e in ogni tempo l’umanità per preservars­i ha dovuto trovare – bene o male – la sua misura ed è inevitabil­e che lo faccia oggi e in avvenire.

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FOTO LAPRESSE Verso il disastro Sempre più evidenti gli effetti dell’influenza umana sugli equilibri naturali
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