CHI SOSTIENE LA MORATTI VUOLE IL SUICIDIO DEL PD
Spero di poter parlare al passato, ma la sola circostanza che la questione sia stata posta è rivelativa della confusione che regna nel e intorno al Pd. Stento a credere che vi sia stato chi pensasse che davvero il Pd potesse decidere di sostenere Letizia Moratti quale candidata alla presidenza della Lombardia. Per molte ragioni. Di merito, di metodo e di decenza. Per il profilo personale e la biografia politica della Moratti, espressione della borghesia lombarda a lungo colpevolmente consegnatasi al berlusconismo. Così per l’intero arco delle sue pubbliche responsabilità: come ministro della Pubblica istruzione, sindaco di Milano, presidente Rai, vicepresidente e assessore al Welfare della giunta Fontana.
PER IL METODO:
poteva il Pd, che già si era orientato su altri candidati e nelle stesse ore in cui i suoi organi lombardi deliberavano primarie per scegliere il proprio candidato, fare sua la candidatura dettata dal Terzo Polo di Calenda e di Renzi? Ammesso e non concesso che il Terzo Polo davvero volesse concordare una candidatura – e non imporne una predefinita al limite della provocazione –, esso avrebbe dovuto sedersi a un tavolo per discuterne.
Per il Pd, accedere alla soluzione Moratti sarebbe stata una resa, quasi un suicidio politico. È del tutto evidente la portata politica nazionale dell’operazione alla luce dell’obiettivo strategico di Calenda e ancor più di Renzi: quello di cannibalizzare e umiliare il Pd, di mettere a verbale e persino ostentare la sua subalternità al Terzo Polo. Di più: di perseguire tale obiettivo nel mentre si avvia il percorso congressuale del Pd chiamato a definire finalmente la propria irrisolta identità. Subire la Moratti sarebbe stato come avere già sciolto il nodo congressuale. Rendendo inutile celebrarlo. Infine, per ragioni di decenza: la signora Moratti era convinta di essere la candidata delle destre. A suo dire, le era stato promesso. Mollata da loro, si è proposta indifferentemente agli avversari.
Dopo la sonora sconfitta elettorale del 25 settembre, nel Pd si parla di rigenerazione, di rifondazione, persino di un nuovo cantiere nel quale il Pd vada oltre se stesso. Può esso portare indietro l’orologio al tempo della stagione renziana? Riconsegnarsi a lui? Nel tempo in cui un po’ tutti semmai convengono sulla circostanza che quella stagione rappresentò una (dis)torsione identitaria del partito di cui l’attuale approdo di Renzi, a un passo dal collaborazionismo con la destra, è una evidente riprova? Nel tempo nel quale lo stesso Letta ha dovuto confessare che il peccato mortale del Pd è stato quello di schiacciarsi sull’establishment e di ignorare “chi non ce la fa”. Ancora – è solo un cenno alla riflessione in corso in varie sedi – nel mentre si contesta al Pd di essere percepito e di essere nei fatti un “partito ministeriale”, che ha sacrificato la propria autonomia politica alla vocazione governista, volentieri partecipando ai più diversi esecutivi pur senza avere vinto le elezioni. Cancellando d’un tratto questa lezione, vi è chi si fa convincere da asseriti sondaggi secondo i quali solo la soluzione Moratti potrebbe dischiudere al Pd le porte del Pirellone.
A mettersi alla testa della campagna perché il Pd sostenga la Moratti, alle solite, Repubblica: in passato house organ dell’ascesa di Renzi, più di recente impegnata a demolire l’asse PD-M5S, per poi stracciarsi le vesti per l’autostrada aperta alla vittoria della Meloni. Non esattamente un giornale rivelatosi fonte di saggi consigli al Pd.
A questi campioni del realismo politico, vorremmo muovere tre obiezioni: quand’anche queste scorciatoie conducessero a vincere, esse comporterebbero un prezzo salatissimo alterando in via definitiva il profilo identitario del Pd; se una lezione si può ricavare dal successo della Meloni è quello che coltivare identità politiche riconoscibili paga; ma soprattutto, al fondo, ci si deve fare la più decisiva delle domande: si fa politica per vincere o si vince per fare politica, una propria politica? Per dare corso ai propri ideali e ai propri programmi. Domande tutte riconducibili a una vecchia massima: “Meglio perdere che perdersi”. È una bizzarria chiedersi se, in Lombardia, a fronte di candidati entrambi di destra, non sia il caso di provare una tantum a offrire un candidato nitidamente alternativo? Memori del precedente di Giorgio Gori, un ultrà del moderatismo, che a fatica raccolse la metà di voti del leghista Attilio Fontana.