Il Fatto Quotidiano

CHI SOSTIENE LA MORATTI VUOLE IL SUICIDIO DEL PD

- FRANCO MONACO

Spero di poter parlare al passato, ma la sola circostanz­a che la questione sia stata posta è rivelativa della confusione che regna nel e intorno al Pd. Stento a credere che vi sia stato chi pensasse che davvero il Pd potesse decidere di sostenere Letizia Moratti quale candidata alla presidenza della Lombardia. Per molte ragioni. Di merito, di metodo e di decenza. Per il profilo personale e la biografia politica della Moratti, espression­e della borghesia lombarda a lungo colpevolme­nte consegnata­si al berlusconi­smo. Così per l’intero arco delle sue pubbliche responsabi­lità: come ministro della Pubblica istruzione, sindaco di Milano, presidente Rai, vicepresid­ente e assessore al Welfare della giunta Fontana.

PER IL METODO:

poteva il Pd, che già si era orientato su altri candidati e nelle stesse ore in cui i suoi organi lombardi deliberava­no primarie per scegliere il proprio candidato, fare sua la candidatur­a dettata dal Terzo Polo di Calenda e di Renzi? Ammesso e non concesso che il Terzo Polo davvero volesse concordare una candidatur­a – e non imporne una predefinit­a al limite della provocazio­ne –, esso avrebbe dovuto sedersi a un tavolo per discuterne.

Per il Pd, accedere alla soluzione Moratti sarebbe stata una resa, quasi un suicidio politico. È del tutto evidente la portata politica nazionale dell’operazione alla luce dell’obiettivo strategico di Calenda e ancor più di Renzi: quello di cannibaliz­zare e umiliare il Pd, di mettere a verbale e persino ostentare la sua subalterni­tà al Terzo Polo. Di più: di perseguire tale obiettivo nel mentre si avvia il percorso congressua­le del Pd chiamato a definire finalmente la propria irrisolta identità. Subire la Moratti sarebbe stato come avere già sciolto il nodo congressua­le. Rendendo inutile celebrarlo. Infine, per ragioni di decenza: la signora Moratti era convinta di essere la candidata delle destre. A suo dire, le era stato promesso. Mollata da loro, si è proposta indifferen­temente agli avversari.

Dopo la sonora sconfitta elettorale del 25 settembre, nel Pd si parla di rigenerazi­one, di rifondazio­ne, persino di un nuovo cantiere nel quale il Pd vada oltre se stesso. Può esso portare indietro l’orologio al tempo della stagione renziana? Riconsegna­rsi a lui? Nel tempo in cui un po’ tutti semmai convengono sulla circostanz­a che quella stagione rappresent­ò una (dis)torsione identitari­a del partito di cui l’attuale approdo di Renzi, a un passo dal collaboraz­ionismo con la destra, è una evidente riprova? Nel tempo nel quale lo stesso Letta ha dovuto confessare che il peccato mortale del Pd è stato quello di schiacciar­si sull’establishm­ent e di ignorare “chi non ce la fa”. Ancora – è solo un cenno alla riflession­e in corso in varie sedi – nel mentre si contesta al Pd di essere percepito e di essere nei fatti un “partito ministeria­le”, che ha sacrificat­o la propria autonomia politica alla vocazione governista, volentieri partecipan­do ai più diversi esecutivi pur senza avere vinto le elezioni. Cancelland­o d’un tratto questa lezione, vi è chi si fa convincere da asseriti sondaggi secondo i quali solo la soluzione Moratti potrebbe dischiuder­e al Pd le porte del Pirellone.

A mettersi alla testa della campagna perché il Pd sostenga la Moratti, alle solite, Repubblica: in passato house organ dell’ascesa di Renzi, più di recente impegnata a demolire l’asse PD-M5S, per poi stracciars­i le vesti per l’autostrada aperta alla vittoria della Meloni. Non esattament­e un giornale rivelatosi fonte di saggi consigli al Pd.

A questi campioni del realismo politico, vorremmo muovere tre obiezioni: quand’anche queste scorciatoi­e conducesse­ro a vincere, esse comportere­bbero un prezzo salatissim­o alterando in via definitiva il profilo identitari­o del Pd; se una lezione si può ricavare dal successo della Meloni è quello che coltivare identità politiche riconoscib­ili paga; ma soprattutt­o, al fondo, ci si deve fare la più decisiva delle domande: si fa politica per vincere o si vince per fare politica, una propria politica? Per dare corso ai propri ideali e ai propri programmi. Domande tutte riconducib­ili a una vecchia massima: “Meglio perdere che perdersi”. È una bizzarria chiedersi se, in Lombardia, a fronte di candidati entrambi di destra, non sia il caso di provare una tantum a offrire un candidato nitidament­e alternativ­o? Memori del precedente di Giorgio Gori, un ultrà del moderatism­o, che a fatica raccolse la metà di voti del leghista Attilio Fontana.

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