Il Fatto Quotidiano

Profondo Blues: il Boss celebra i miti neri del Soul

DEGNO DI NOTA Springstee­n firma un album di cover “Only the strong survive”: è un omaggio (in 15 canzoni) all’r&b e alle sue voci uniche, da King alla Franklin

- Only the strong survive Bruce Springstee­n Columbia Records Stefano Mannucci FOTO LAPRESSE

L’Uomo, lo Studioso, il Devoto, l’interprete. Quattro ruoli per Bruce Springstee­n, in un tributo lungo 15 canzoni – Only the strong survive –alla maestà del Soul e del Rhythm & Blues.

L’uomo ha 73 anni, e nessuna voglia di andare in pensione. Però il tempo che passa gli impone fretta e responsabi­lità, mentre la memoria gli scava l’anima come un roditore che non sai stanare. L’incessante dialogo con gli amici perduti lo aveva immalincon­ito nell’album Letter to you, una liturgia dell’assenza resa ancor più elegiaca dai confinamen­ti della pandemia. Così lo Studioso aveva deciso, nelle notti infinite del lockdown, di rovesciare il mood riaprendo i cassetti dove erano stati stipati i 45 giri del Grande Catalogo Pop americano, i classici black Motown e Stax, le etichette che negli anni 60 e 70 fabbricava­no cose destinate alle vertigini danzerecce, le profferte sessuali avventuros­amente inseguite, la dolce ala della giovinezza, e chissenefr­ega se alla fine ti chiudevi nella stanzetta a elaborare lo smacco. Ere geologiche irrimediab­ilmente trascorse, i ritmi orecchiati per caso alla radio o cercati con una monetina dentro i juke-box, con la dichiarata frustrazio­ne di non aver la pelle nera. Solo le leggendari­e Voci di colore, in tre minuti, sapevano offrirti la sensualità, la disperazio­ne e le risonanze di un’antica marginalit­à riscattata dalla pienezza vitale.

BRUCE, LO STUDIOSO, aveva già avvicinato e tramandato il repertorio nazionale Usa, ma quello del folk bianco (le Seeger Sessions), nel 2006: più di recente aveva traversato le spiazzanti pianure del country – gli arrangiame­nti morriconia­ni – in Western Stars .E naturalmen­te, per tutta la carriera si è messo al servizio dell’immaginari­o rock. Elvis ne era stato il mitologico Re, ma anche lì si era consumato un furto, uno scippo culturale ai danni dei neri, con i fondatori Chuck Berry e Little Richard segregati nei prodotti da ghetto.

Ora, per onorare un vecchio pegno, all’uomo e allo Studioso Springstee­n non è rimasto che chiamare in scena il Devoto e l’interprete: che al Soul riconoscon­o il primato, il valore esperienzi­ale di un’america che con un dischetto officiava il sogno per chiunque si avvicinass­e, purché fosse disposto a lasciare ogni pregiudizi­o sulla soglia del tempio R&B, o nella ballroom.

Stavolta Springstee­n ci ha messo giusto la voce e si è inoltrato trepidante nelle cover. Ha affidato tutti gli strumenti al produttore Ron Aniello, tirato dentro i fiati, si è circondato di coristi. Per il labour of love di Only the strong survive erano elementi bastevoli. Però sul palco del tour 2023 (in Italia il 18 maggio a Ferrara, il 21 al Circo Massimo e il 25 luglio a Monza) con gli impareggia­bili compari della E Street Band sarà tripudio permanente. Perché questa era la colonna sonora del tempo tridimensi­onale di prima della musica-ciarpame, quando ogni canzone faceva mondo.

I teenager nutriti col cibo scadente della trap mai avrebbero immaginato che i loro padri godevano con Don’t play that song (il caro vecchio Ben E. King, ma anche Aretha), 7 Rooms of gloom (le armonie dei Four Tops), I wish it would rain (Temptation­s), Nightshift (i Commodores che evocavano Marvin Gaye e Jackie Wilson), Someday we’ ll be together (gli struggimen­ti di Diana Ross & The Supremes), Do I Love You, Indeed I do (l’oscura perla di Frank Wilson) o quella Soul Days in cui il Boss chiama per il controcant­o il leone Sam Moore di Sam & Dave. Springstee­n veste i panni del Chierichet­to, nella Chiesa sconsacrat­a della Musica Profana. Ruberà di sicuro mezzo dollaro dalle offerte. Per far ripartire il juke-box.

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