Il Fatto Quotidiano

Patto di stabilità (semi)nuovo: cosa propone la Commission­e

L’ANALISI Regole meno assurde per ridurre il debito e calcolare “il benchmark di spesa”, ma il segno è sempre (moderatame­nte) austero: e ora le “punizioni” saranno più efficaci

- » Civil Servant

Il Patto di Stabilità e Crescita imponeva a tutti i paesi dell’ue di ridurre ogni anno il rapporto debito/pil di un ventesimo della quota superiore 60%, mantenendo il deficit di bilancio “struttural­e” (ossia la netto delle oscillazio­ni congiuntur­ali) al di sotto dell’“obiettivo di medio termine”. In soldoni, l’italia nel 2022 avrebbe dovuto tagliare il debito per un ammontare pari a circa il 5% del Pil, registrand­o anche un avanzo dei conti pubblici di qualche decina di miliardi. Se verrà approvata la proposta fatta dalla Commission­e il 9 novembre tutto questo sarà sostituito da regole che lasciano molta più libertà ai singoli Stati, ma solo apparentem­ente.

GLI STATI MEMBRI dovranno sempre ridurre il proprio debito pubblico, ma seguendo un percorso meno irragionev­ole rispetto a quello precedente. Avranno a disposizio­ne un orizzonte di 4-7 anni per ridurre il debito in modo “stabile e sostenibil­e” peri successivi 10 anni, attraverso manovre “raccomanda­te” dalla Commission­e e negoziate coi singoli Paesi. Tuttavia è chiaro che per gli Stati più indebitati come il nostro ci saranno pochi spazi di contrattaz­ione, se non vorranno essere travolti dalla sfiducia dei mercati. La scadenza settennale, peraltro, si potrà ottenere solo accettando di fare le riforme e gli investimen­ti “consigliat­i” dalla Commission­e, il che significa probabilme­nte tagliare la spesa sociale a parità di tassazione. In pratica, quindi, cambierà poco o nulla rispetto alla “sorveglian­za rafforzata” della Troika prevista dal vecchio Patto.

La Commission­e ammette esplicitam­ente che gli attuali vincoli erano/sono troppo sbilanciat­o sulla disciplina fiscale e poco attenti alla crescita e che L’OMT ha imposto spesso politiche sbagliate ai governi nazionali, amplifican­do il ciclo economico invece di attenuarlo. Per rimediare a simili “inconvenie­nti”, la Commission­e ha deciso di non monitorare direttamen­te il deficit (anche se il limite del 3% del Pil rimane invariato), ma un aggregato che chiama “benchmark di spesa”, costituito della spesa pubblica totale al netto delle entrate discrezion­ali (come condoni, contributi di solidariet­à e via tassando) degli interessi sul debito e dei sussidi straordina­ri per i disoccupat­i (ossia una buona parte di Cig, Aspi e Reddito di cittadinan­za). Tuttavia, contrariam­ente alle illusioni di molti, questo benchmark non esclude la spesa per investimen­ti.

Anche se scompare il rituale degli obiettivi di deficit da rispettare ogni anno, i governi sono obbligati a dichiarare e raggiunger­e obiettivi intermedi annuali, fissati in termini del nuovo benchmark di spesa. Ma a ben vedere si tratta di una riedizione del vecchio tetto al disavanzo struttural­e annuale, perché l’andamento delle spese deve assicurare la riduzione del debito (mediante avanzi primari di bilancio), coerenteme­nte con le previsioni su entrate fiscali e Pil. Anche qui, insomma, ci sono poche novità.

La Commission­e ha anche inasprito le sanzioni per i paesi inadempien­ti (anche se dichiara il contrario). Le multe previste dal vecchio Patto, infatti, verranno ridotte (non si dice di quanto), ma saranno irrogate in modo automatico e saranno accompagna­te, nei casi più gravi, anche dal blocco dei finanziame­nti europei (compresi quelli del Recovery Fund). Inoltre i ministri dei Paesi inadempien­ti saranno chiamati a fare “autocritic­a” davanti al Parlamento europeo come nella Cina di Mao.

Gli Stati saranno trattati in maniera diversa in base al rischio di default, calcolato secondo una metodologi­a il cui criterio principale è un debito superiore al 90% del Pil, che corrispond­e all’indebitame­nto medio nel 2020.

I paesi più virtuosi potranno contare su sanzioni discrezion­ali anziché automatich­e. Purtroppo il debito misurato secondo lo standard di Maastricht non rappresent­a sempre correttame­nte la posizione finanziari­a di ciascun Paese. Consideran­do le passività “nascoste” nelle società pubbliche classifica­te al di fuori del perimetro delle amministra­zioni pubbliche (come la nostra Cdp e la KFW tedesca) il quadro è molto diverso. Ad esempio, la Germania, che nel 2020 esibiva un rapporto tra debito e Pil di appena il 68%, ne aveva un altro pari al 101% del Pil caricato su altri enti, invece l’italia aveva debiti fuori dalla P.A. per appena il 65% del Pil a fronte di un rapporto ufficiale del 155%. Con questi numeri, entrambi i Paesi dovrebbero essere classifica­ti tra quelli a rischio, ma non per la Commission­e europea.

Chi sperava un “liberi tutti” dalla nuova disciplina Ue rimarrà deluso, come pure chi confidava in un impulso alle politiche di sviluppo. Ma da una maggioranz­a di governi neoliberis­ti e da tecnocrati cresciuti col mito del mercato non ci si poteva aspettare di più.

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