Sanità, col Payback di Renzi i fornitori rischiano di fallire
Introdotta dall’allora premier nel 2015 e attuata da Draghi, consente alle Asl che sforano il tetto di spesa di ripianare il buco chiedendo indietro gli incassi alle aziende
Se l’azienda sanitaria sfora il tetto di spesa, a ripianare il buco di bilancio devono essere le aziende che la riforniscono, restituendo una parte di quanto incassato. Adesso funziona così. Si chiama payback. La norma l’ha introdotta il governo guidato da Matteo Renzi nel 2015. Per sette anni è rimasta inattuata. Poi Mario Draghi l’ ha applicata il 9 agosto scorso con il decreto Aiuti bis, seguito da quello ministeriale con le linee guida. Adesso è una partita da 2,2 miliardi, per il periodo 2015-2018, che sta mettendo in ginocchio le imprese che producono o distribuiscono dispositivi medici e che riforniscono la sanità pubblica. “E se non paghiamo ci trattengono gli importi che abbiamo fatturato quest’anno”, dice Sergio Centenaro, direttore generale di Resnova, piccola azienda di Roma (ha 16 dipendenti) che distribuisce kit diagnostici per l’area oncologica e genetica e che ha ricevuto dalla Regione Toscana l’intimazione a pagare 70 mila euro.
“EPPURE le forniture alle aziende sanitarie e agli ospedali vengono fatte sulla base di gare pubbliche, con le quali vengono fissate basi d’asta – prosegue Centenaro –. Come facciamo noi a sapere se una Asl spende troppo? Non è certamente di nostra competenza. Ma non possiamo nemmeno sospendere le forniture. E non solo perché risulteremmo inadempienti agli obblighi sottoscritti, ma anche perché il sistema sanitario si bloccherebbe”. A queste condizioni, viene da chiedersi, che senso ha partecipare a una gara pubblica? Non è meglio rivolgersi al privato? La norma vale in teoria per tutte le Regioni. Ma sono quelle le cui aziende sanitarie hanno i conti in rosso che da alcuni giorni stanno inviando lettere ai loro fornitori, con le richieste di pagamento. Vale a dire più della metà. Lettere alle quali molti stanno rispondendo con ricorsi al Tar. Ne sono già stati presentati un centinaio. A essere coinvolte sono le circa 4.500 imprese che operano nel settore.
SVETTANO
alcune multinazionali: ma sono la minima parte. La stragrande maggioranza – circa il 90% – è costituita da piccole e medie imprese. Ma come funziona il payback? Le Regioni, in base a quanto stabilito, hanno il diritto di chiedere la restituzione di una quota che oscilla tra il 40 e il 60% della spesa extra accumulata dalle aziende sanitarie, che devono riportare in equilibrio i conti battendo cassa con chi li ha riforniti. “Ci stiamo anche domandando come fanno i direttori generali che devono scorporare la spesa a calcolare l’ammontare dell’importo che dobbiamo pagare – dice Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria dispositivi medici –. Inoltre i tempi di pagamento disposti, entro 30 giorni, sono incompatibili con la sopravvivenza di migliaia di imprese, soprattutto in una fase come questa caratterizzata da una forte crisi di liquidità. Nessuno tra i fornitori ha responsabilità per lo sforamento dei tetti di spesa da parte delle aziende sanitarie. Noi ci atteniamo a quanto previsto dalle gare pubbliche”.
Pioggia di ricorsi al Tar Una partita da 2,2 mld per oltre 4 mila Pmi. Così partecipare a una gara pubblica è un boomerang
A INDURRE
le aziende a non sospendere le forniture non c’è solo il timore di incorrere nel reato di interruzione di pubblico servizio (che è già stato palesato dai legali che stanno presentando i ricorsi al Tar). “C’è anche uno scrupolo di carattere etico – aggiunge Boggetti –. Oltre a rischiare di essere segnalati all’autorità garante come soggetti inadempienti consideriamo il fatto che riforniamo la sanità pubblica con prodotti che servono a farla funzionare: senza si interrompe tutto”. I ricorsi che vengono depositati in questi giorni contestano non solo l’applicabilità della normativa ma anche la sua incostituzionalità e iniquità. Rilevano l’illegittimità del provvedimento anche in rapporto al diritto comunitario e alle leggi già esistenti. “C’è poi il fatto che le aziende non sono in grado di ipotizzare se e quanto dovranno restituire – spiega Boggetti –, e questa incertezza al di là dell’ingiustizia del provvedimento è quanto di più pericoloso possa esistere per una impresa. Senza contare che su quanto incassato le aziende pagheranno tasse che non verranno restituite”.