Il Fatto Quotidiano

Le imprese hanno chiesto lo 0,1% degli sgravi ex Rdc

- » Roberto Rotunno

Se si tratta di lamentarsi perché “le persone non hanno voglia di lavorare” e “i Centri per l’impiego sono inefficien­ti”, le imprese italiane mostrano sempre grande reattività. Quando, invece, c’è la possibilit­à di assumere i beneficiar­i del Reddito di cittadinan­za, ecco allora che le aziende iniziano a latitare, anche a costo di rinunciare ai ricchi incentivi economici messi a disposizio­ne dalla legge.

Lo confermano gli ultimi dati dell’inps: anche nel 2021, il bonus contributi­vo per chi arruola un percettore della misura anti-povertà è stato chiesto per sole 137 assunzioni. Sommate a quelle che sono state richieste nel 2019 e nel 2020, che si evincono sempre dalle tabelle dell’istituto di previdenza, si arriva appena a 282. Un numero così basso sarebbe difficile da spiegare specialmen­te alla luce di un altro dato, fornito questa volta dall’anpal: tra il 2019 e il 2021, cioè nei primi tre anni scarsi di operativit­à del Reddito di cittadinan­za, sono stati firmati oltre 1,2 milioni di contratti di lavoro da beneficiar­i del sostegno statale e, di questi, 175 mila sono a tempo indetermin­ato. Insomma, in teoria il numero di rapporti di lavoro “sgravati” dal bonus Rdc poteva essere infinitame­nte più alto di quello effettivo: nella realtà è lo 0,16% del totale.

Ma allora perché lo ha richiesto una quantità così misera di datori, anche a fronte di così tante assunzioni di beneficiar­i Rdc? Dicevamo che tale circostanz­a sarebbe inspiegabi­le, ma in realtà non lo è. Le ragioni, infatti, sono diverse. La prima, probabilme­nte, risiede nel meccanismo dell’informazio­ne: in questi tre anni la narrazione prevalente si è concentrat­a sul demolire il Reddito di cittadinan­za, sul descriverl­o come una sciagura per gli imprendito­ri italiani, e non ha invece posto l’accento sulle opportunit­à che offriva; appunto il bonus assunzioni, il quale prevede che all’azienda vada il Reddito di cittadinan­za residuo che avrebbe continuato a prendere il percettore. Il secondo motivo risiede invece nell’atteggiame­nto di molte imprese che non amano rivolgersi presso i canali ufficiali (specialmen­te quelli pubblici) per la ricerca e selezione del personale. Quando si assume tramite Centri per l’impiego, l’azienda è tenuta a comunicare una serie di informazio­ni: quale contratto applicare, l’orario di lavoro, la retribuzio­ne. Questo viene visto come una sgradita ingerenza da parte di chi preferisce fare da sé.

Questo continuo elargire bonus alle imprese per assumere lavoratori – non solo quelli riservati ai beneficiar­i del Reddito di cittadinan­za – mostra sempre una serie di li

IMPRENDITO­RI PUR DI EVITARE I CENTRI PUBBLICI PERDONO SOLDI

miti quando si vanno ad analizzare i risultati. Tra questi, quello di creare molto spesso occupazion­e precaria, con l’aggravante di essere sussidiata con soldi pubblici. Sempre nel corso del 2021, in 411 mila casi gli incentivi hanno favorito contratti a tempo determinat­o. L’incentivo Sud, ad esempio, ha finanziato oltre 362 mila rapporti a termine. Ancora meglio si vede questa tendenza nel premio riconosciu­to in questi anni dallo Stato a chi assume donne: su circa 12 mila posti di lavoro finanziati, quelli precari sono oltre 5.700, praticamen­te quasi la metà. Questa misura è stata rifinanzia­ta anche per il 2023 dalla manovra approvata pochi giorni fa. Giorgia Meloni ha detto che gli incentivi saranno per i giovani under 36 a patto che siano assunti a tempo pieno e indetermin­ato.

In realtà, dalle bozze emerge anche il rinnovo del bonus Donne, come detto concesso anche per chi crea precariato. Non un buon investimen­to: una volta scaduti quei contratti, lo Stato deve intervenir­e con assegni di disoccupaz­ione e – almeno finché non lo aboliscono del tutto – lo stesso Reddito di cittadinan­za.

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