Le imprese hanno chiesto lo 0,1% degli sgravi ex Rdc
Se si tratta di lamentarsi perché “le persone non hanno voglia di lavorare” e “i Centri per l’impiego sono inefficienti”, le imprese italiane mostrano sempre grande reattività. Quando, invece, c’è la possibilità di assumere i beneficiari del Reddito di cittadinanza, ecco allora che le aziende iniziano a latitare, anche a costo di rinunciare ai ricchi incentivi economici messi a disposizione dalla legge.
Lo confermano gli ultimi dati dell’inps: anche nel 2021, il bonus contributivo per chi arruola un percettore della misura anti-povertà è stato chiesto per sole 137 assunzioni. Sommate a quelle che sono state richieste nel 2019 e nel 2020, che si evincono sempre dalle tabelle dell’istituto di previdenza, si arriva appena a 282. Un numero così basso sarebbe difficile da spiegare specialmente alla luce di un altro dato, fornito questa volta dall’anpal: tra il 2019 e il 2021, cioè nei primi tre anni scarsi di operatività del Reddito di cittadinanza, sono stati firmati oltre 1,2 milioni di contratti di lavoro da beneficiari del sostegno statale e, di questi, 175 mila sono a tempo indeterminato. Insomma, in teoria il numero di rapporti di lavoro “sgravati” dal bonus Rdc poteva essere infinitamente più alto di quello effettivo: nella realtà è lo 0,16% del totale.
Ma allora perché lo ha richiesto una quantità così misera di datori, anche a fronte di così tante assunzioni di beneficiari Rdc? Dicevamo che tale circostanza sarebbe inspiegabile, ma in realtà non lo è. Le ragioni, infatti, sono diverse. La prima, probabilmente, risiede nel meccanismo dell’informazione: in questi tre anni la narrazione prevalente si è concentrata sul demolire il Reddito di cittadinanza, sul descriverlo come una sciagura per gli imprenditori italiani, e non ha invece posto l’accento sulle opportunità che offriva; appunto il bonus assunzioni, il quale prevede che all’azienda vada il Reddito di cittadinanza residuo che avrebbe continuato a prendere il percettore. Il secondo motivo risiede invece nell’atteggiamento di molte imprese che non amano rivolgersi presso i canali ufficiali (specialmente quelli pubblici) per la ricerca e selezione del personale. Quando si assume tramite Centri per l’impiego, l’azienda è tenuta a comunicare una serie di informazioni: quale contratto applicare, l’orario di lavoro, la retribuzione. Questo viene visto come una sgradita ingerenza da parte di chi preferisce fare da sé.
Questo continuo elargire bonus alle imprese per assumere lavoratori – non solo quelli riservati ai beneficiari del Reddito di cittadinanza – mostra sempre una serie di li
IMPRENDITORI PUR DI EVITARE I CENTRI PUBBLICI PERDONO SOLDI
miti quando si vanno ad analizzare i risultati. Tra questi, quello di creare molto spesso occupazione precaria, con l’aggravante di essere sussidiata con soldi pubblici. Sempre nel corso del 2021, in 411 mila casi gli incentivi hanno favorito contratti a tempo determinato. L’incentivo Sud, ad esempio, ha finanziato oltre 362 mila rapporti a termine. Ancora meglio si vede questa tendenza nel premio riconosciuto in questi anni dallo Stato a chi assume donne: su circa 12 mila posti di lavoro finanziati, quelli precari sono oltre 5.700, praticamente quasi la metà. Questa misura è stata rifinanziata anche per il 2023 dalla manovra approvata pochi giorni fa. Giorgia Meloni ha detto che gli incentivi saranno per i giovani under 36 a patto che siano assunti a tempo pieno e indeterminato.
In realtà, dalle bozze emerge anche il rinnovo del bonus Donne, come detto concesso anche per chi crea precariato. Non un buon investimento: una volta scaduti quei contratti, lo Stato deve intervenire con assegni di disoccupazione e – almeno finché non lo aboliscono del tutto – lo stesso Reddito di cittadinanza.