I “PECCATI” DA INSEGNARE CONTRO TUTTE LE VIOLENZE SULLE DONNE
Tanto tempo fa, nel 1982, ero una ragazza di quindici anni che era stata aggredita sessualmente per due volte nel luogo più sacro dell’islam, alla Mecca, in Arabia Saudita, mentre compiva l’hajj, il pellegrinaggio musulmano considerato il quinto pilastro dell’islam. Non avevo mai subìto un’aggressione sessuale prima, mi bloccai e scoppiai in lacrime. Mi vergognavo ed ero sconvolta e, ancora più importante, rimasi in silenzio. Mi ci sono voluti anni prima di riuscire a raccontare a qualcuno che cosa era accaduto durante il mio primo hajj. (…)
Nel febbraio 2018, ho chiesto alle compagne musulmane che si sentivano abbastanza al sicuro di condividere la loro esperienza di maltrattamenti o aggressione sessuali, durante l’hajj o in altri luoghi sacri musulmani. Ho aggiunto al post un hashtag: #Mosquemetoo. In due giorni il mio thread di Twitter ha avuto migliaia di condivisioni e like. Era stato replicato in indonesiano, arabo, francese, tedesco, spagnolo e farsi. Non avevo mai visto una tale risposta. (…)
Per una sera volevo una tregua da tutti questi ragionamenti, per cui, cinque giorni dopo aver lanciato #Mosquemetoo, sono andata con il mio amore in un locale a Montreal per ballarci su. E lì, nel mezzo della pista affollata e sudata, all’età di cinquant’anni, ho sentito una mano sul culo. Ho pensato: “Sta succedendo di nuovo?”. Mi sono ricordata di me quindicenne all’hajj, coperta da capo a piedi, mostrando solo la faccia e le mani. Ora, su una pista da ballo di Montreal, indossavo una canottiera e dei jeans. Ma non contava niente (hijab o canottiera), le mani di un uomo mi trovavano di nuovo. Ne avevo abbastanza.
Ma diversamente dal 1982, quando non riuscii a guardarmi intorno per trovare il mio aggressore, ho subito individuato il verme, che aveva cominciato ad allontanarsi. Come se avessi l’autopilota, l’ho seguito e l’ho strattonato così forte dal dietro della camicia che è inciampato. Quando è caduto, mi sono seduta sopra di lui e gli ho tirato cazzotti, cazzotti e cazzotti sulla faccia. (...) Dopo la zuffa al locale, ho condiviso quanto era successo su Twitter, con un nuovo hashtag: #Ibeatmyassaulter. Ho passato tutto il weekend mettendo ghiaccio sui miei ematomi alle mani e leggendo donne da tutto il mondo che mi mandavano le loro esperienze relative al #Ibeatmyassaulter. Come con #Mosquemetoo, moltissime mi hanno scritto dicendo “anche io”: Ero in un locale/alla fermata dell’autobus/a scuola, qui, là e #Ibeatmyassaulter. Proprio come per il #Mosquemetoo, era un coro globale di donne, consapevoli di cosa significa averne abbastanza della merda del patriarcato. (…) Trentacinque anni separano la me quindicenne dalla cinquantenne. Ma una settimana a Montreal ha annullato quella distanza e mi ha ricordato che a prescindere dall’età o dal luogo, sacro o laico, il patriarcato educa gli uomini a credere di avere diritti sui corpi delle donne. E il patriarcato non solo non ci insegna come reagire, ma incoraggia attivamente la nostra accettazione e paura. (…) Parole come “femminismo” e “resistenza” vengono svuotate del loro significato quando le presentiamo come palliativi che offrono un sollievo momentaneo di fronte ai capricci del patriarcato. Ne ho abbastanza di offrire a donne e ragazze solo modi per sopravvivere, invece che strumenti per reagire. Il senso di pericolo e la paura che dovrebbero suscitare il femminismo e la resistenza non devono essere eliminati. (...) Abbiamo bisogno di meno road map per un trattato di pace con il patriarcato e di più manifesti su come distruggerlo. Sette peccati necessari è il mio manifesto.