Il Fatto Quotidiano

BONACCINI O SCHLEIN? IL PD È UN’ÉLITE DEL MARKETING

- DANIELA RANIERI

Apprendiam­o dai giornali che domenica si terrà una kermesse al Monk di Roma (dal sito del Monk: uno “spazio trasversal­e che riconosce l’importanza della condivisio­ne: tanti percorsi che si incontrano e si intreccian­o per generare nuova linfa”: praticamen­te il programma del Pd) dove Elly Schlein formalizze­rà la sua candidatur­a alla guida del Pd, a cui non è iscritta, e dal cui parterre si capirà chi sta con lei e chi invece, assentando­si, con Bonaccini. Il Pd si è ridotto al punto di dover riporre tutte le sue speranze in mano a queste due figure (le altre possibili, De Micheli, Nardella, Ricci, sono chiarament­e carne da primarie). Perché? Quali sono le visioni della società e del mondo di Bonaccini e Schlein?

Di Bonaccini si sa ch, dopo una gavetta nella sinistra e un’affermazio­ne renzian-contundent­e, è diventato presidente di Regione, o, detto in modo sbarazzino, “governator­e” (una di quelle parole, insieme a “premier”, usate per designare figure che nel nostro ordinament­o non esistono e a cui pian piano ci si abitua, così quando introducon­o di soppiatto la norma che istituisce il referente di quella parola nessuno se ne accorge), che è favorevole all’autonomia differenzi­ata (esattament­e come i leghisti) e che parla ancora della sua vittoria sulla leghista Bergonzoni

in Emilia-romagna come fosse la battaglia di Stalingrad­o.

Di Schlein si sa che è la vice di Bonaccini e che con la sua lista Coraggiosa, incentrata sui diritti civili e la transizion­e ecologica, ha contribuit­o a battere Bergonzoni. L’attuale, altisonant­e e grottesco “percorso costituent­e” del Pd, che lo porterà al Congresso che lo porterà alle primarie etc., è in realtà una grande campagna di marketing: stanno temporeggi­ando per testare i prodotti da immettere sul mercato. Non avendo visioni del mondo da discutere, il partito che si era messo a pelle d’orso sotto la fantomatic­a agenda Draghi (uno dei feticci fantasy di questa finta sinistra insieme a “governabil­ità”, “democrazia decidente” etc.) ha solo facce da proporre. Le correnti punteranno sul cavallo ritenuto vincente, cercando di capire quale delle due strategie abbia più presa: un partito-regione da affidare all’efficiente “governator­e” hipster di mezza età abilissimo nella pratica del selfie, o un partito-monk, trasversal­e e linfatico, da affidare alla pasionaria dell’identità fluida e non binaria. La valorizzaz­ione della individual­ità-differenza è in effetti molto di moda e il Pd potrebbe montarci sopra. Il marketing incoraggia questa finta liberazion­e, non certo per migliorare la società e aumentare il rispetto delle diversità, bensì per monetizzar­le. Per il mercato e per la politica neoliberis­ta, sposi felici, siamo tutti uguali non perché ciò sia democratic­o, ma perché il denaro “costringe le cose contrarie a baciarsi” (Marx). Se siamo tutti individui e uguali, nessuno ha coscienza di appartener­e a una collettivi­tà e tantomeno a una classe. Gli individui liberati sono tutti dei senza classe. E chi tutela le classi subalterne, chiarament­e attaccate da un governo di destra che toglie il pane di bocca ai poveracci e favorisce ogni genere di parassiti, in un mondo che si pretende senza classi, ma abitato solo da individui fluidi? Può farlo il Pd, avendo varato il Jobs Act e messo zizzania tra lavoratori (togliendo garanzie a tutti, non dandole a chi non le aveva) senza mai intaccare gli attuali rapporti di forza? Inoltre i media padronali da anni lavorano a rinominare “populismo” qualunque eventuale insorgenza popolare, in chiave anti-m5s, e il Pd si è imbelletta­to di fronte ai potentati internazio­nali come anti-populista, agile, ideologica­mente slavato e inoffensiv­o. Ultimament­e, dopo la pestilenza renziana, si è fatto pure accecare dal “moderatism­o” di Calenda (l’unione non si è concretizz­ata perché Calenda ha scaricato Letta, non per insorgente decenza), il quale Calenda adesso, da leader serio e moderato, non si fa alcun problema a mettersi a disposizio­ne della postfascis­ta Meloni. Il Pd non è un partito (tantomeno di massa), ma un’associazio­ne culturale d’élite che cerca di captare quel che va di più nella società in un dato momento per tradurlo in voti. Lungi dal capire che è stato per ciò che è diventato un apparato incistato dal potere, odiato dal suo elettorato storico (lavoratori dipendenti, operai, giovani precari, percettori di Rdc, contro cui votò) e governato da narcisismi contrappos­ti detti correnti, si dedica al rebranding lanciando due nuovi prodotti e cambiando logo. Il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha proposto di rinominare il Pd “Partito democratic­o e del lavoro” (il cui acronimo sarebbe PADEL, come il gioco simil-tennis che va tanto di moda presso i detentori di partita Iva in pausa pranzo), come se l’industria delle automobili inquinanti da domani decidesse di chiamarsi “industria dei motori e dell’aria pulita” e automatica­mente lo diventasse.

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