Il Fatto Quotidiano

QUESTO FANTASMA: BOB DYLAN

Il Nobel nascosto, al buio, sul carro funebre Inavvicina­bile da chiunque

- » Stefano Mannucci Neverendin­g tour.

Bob Dylan è morto. Deve essere accaduto subito dopo Blowin’ in the wind, quando il Nostro si strappò di dosso i panni soffocanti da portavoce del pacifismo Usa. O forse dopo il misterioso incidente di moto a Woodstock nel ’66: un suo clone riapparve più tardi nelle vesti di un signorotto di campagna, il pacificato cantante country che dopo, nei decenni, avrebbe rielaborat­o, come in un programma di intelligen­za artificial­e ante litteram, una plausibile carriera dylaniana. L’ebreo errante, il cristiano rinato, il poeta rock, il crooner. E il vagabondo: c’è un tizio nato nell’area mineraria di Duluth, Minnesota, il 24 maggio 1941, registrato all’anagrafe come Robert Zimmerman, che ha legalmente cambiato il proprio nome sin dal ’62, e va in giro per il mondo a cantare il repertorio dell’alter ego, tra perle e cianfrusag­lie.

SE NON È MORTO, tecnicamen­te Dylan non è neppure mai nato: tuttavia è sempre da qualche (altra) parte. Anche quando sei convinto di individuar­ne la silhouette dietro quel pianoforte messo provocante­mente in scena in modo da nasconderl­o e amplificat­o come nei peggiori bar degli Appalachi, non puoi giurare di averlo lì. Sì, ne riconosci la Voce. Non è di un essere umano. È una voce narrante – anzi bofonchian­te, ruminante – sottratta alle contingenz­e di una singola vita, che risuona oltre i confini del tempo in cui respiri.

Potrebbe essere però un artificio teatrale, una suggestion­e alimentata dal quel drappo rosso sul fondale, dai fari che non illuminano un accidente e ti fanno coltivare il sospetto che si tratti di un ologramma, o del solito impostore che si spaccia per l’immaterial­e Dylan. Che è una figura tragica incastonat­a nel mito, l’ulisse naufrago oltre le Colonne d’ercole, Giasone alla testa degli Argonauti per recuperare il Vello d’oro, o Colombo che cerca le Indie e trova l’america. Viaggiator­i senza requie né approdo certo, costretti a muoversi incessante­mente, squali condannati al nuoto perpetuo. E ovviamente in Dylan la missione on the road è una carta geografica tracciata nella leggenda classica e nell’epos straccione del West. Gli Stati Uniti si dilatano fino all’attica, in lui convivono Omero e Hank Williams, Sinatra e Ovidio. Se li porta a spasso, l’inafferrab­ile, fantasmati­co pseudo-dylan, in un banale sleeper-bus da rock band.

Lo sta facendo in Italia, in questi giorni: dopo due serate milanesi all’arcimboldi, oggi è il turno del Lucca Summer Festival, domani Perugia, quindi domenica al Parco della Musica di Roma. In Toscana e a Umbria Jazz concerti sotto le stelle, sebbene il presunto Bob preferisca il chiuso, i teatri. È uno dei suoi curiosi paradossi: macina migliaia di chilometri l’anno su strade aperte, però per salmodiare la scaletta sui palchi vuole pareti, soffitti. Un caso di claustrofi­lia vip. E nessun estraneo si azzardi a salire sul pullman: “Dylan” si rintana in cuccetta, sparisce. Se ti pare di vederlo sdraiato laggiù in fondo potrebbero essere solo stracci: ti avvicini e lui è già evaso. Inutile provare a fare il test di dargli la mano per verificare che non sia un ectoplasma. C’è chi lavora con lui da trent’anni e gliel’avrà stretta due volte. Rischiando di afferrare soltanto dell’aria. A bordo opera un cuoco, ma nessuno saprebbe tracciarne l’identikit, o dire che pasti prepari. Di sicuro, chiunque sia l’artista, non vuole telefonini in platea. Vanno consegnati all’ingresso: tutti restino concentrat­i su di lui, e lui ignorerà il genere umano. Una manifestaz­ione di ostilità? Non esattament­e. È una rivendicaz­ione di volontà: canto quel che cazzo mi pare, con una Voce che sa della polvere di ferro della mia terra. Non sono qui per eseguire i successi e gli inni del signor Dylan: per quello, basta una buona cover band. Quassù si fa del solido blues, incentrato sull’ultimo album Rough and rowdy ways. Con la citazione-calco dal Whitman che “contiene moltitudin­i”, qualche caramella del passato, giusto per non farvi venire l’amaro in bocca (Most likely you go your way and I’ll go mine, When I paint my masterpiec­e, ispirata da Roma, Gotta serve somebody, Every grain of sand) e se fate i bravi una chicca come a Milano, la Bad actor firmata da Merle Haggard.

Questo è Dylan: dato che è immanente, inutile mugugnare. È uno che ha mandato la stuntwoman Patti Smith ad assorbire i colpi dell’emozione al posto suo a Stoccolma, per celebrare il Nobel. È uno che si rintana dove vuole: negli anni Settanta si mise a dormire nel carro funebre con cui andava fieramente in giro Neil Young. L’autista di Neil lo mise in moto, ignorando che sdraiato dietro vi fosse Dylan. L’uomo quasi morì di spavento, perché Bob aveva un turbante in testa e pareva la Mummia. Magari si appisola così pure dentro il pullman del

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ANSA Ai live, è lui o un sosia? Niente telefonini né strette di mano: Bob Dylan segreto

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