Tolstoj: un cavallo insieme agli amici, un asino a scuola
Cavallo. “Ascoltate, Lev Nikolaevic, voi siete stato sicuramente un cavallo, chissà quando!”, disse un giorno a Tolstoj, durante una passeggiata per i campi, l’amico-nemico Turgenev. Era successo che, visto un cavallo, Tolstoj aveva cominciato a raccontarne la storia intima, gli stati d’animo e le vicissitudini passate. Forse lo stesso che compare come protagonista in Cholstomer, un racconto pensato nel 1856 e scritto nel 1861-63. Cholstomer è uno splendido cavallo di razza che ha avuto la sfortuna di nascere con un mantello eccentrico, pezzato; così (nonostante la sua superba struttura fisica e il suo innato dono per la corsa) dopo mille peripezie approda a uno sfiancante lavoro come bestia da soma. Durante la sua lunga vita Cholstover, il castrone pezzato, ha avuto modo di “fare molte osservazioni sugli uomini e sui cavalli”, e la cosa che più lo ha colpito è l’abitudine tutta umana di dire “mio” a proposito di ogni genere di cose. Gli uomini che ha conosciuto “amano non tanto la possibilità di fare o non fare qualcosa, quanto la possibilità di dire, a proposito di svariati oggetti, delle parole convenute. Tali parole, considerate tra loro molto importanti, sono: mio, mia, miei, ed essi le dicono a proposito di vari oggetti, esseri e cose, anche della terra, degli uomini e dei cavalli. Di una stessa cosa essi convengono che uno solo dica: è mia. E chi, secondo questo gioco convenuto, può dire “mia” della maggiore quantità di cose, è ritenuto il più felice”.
Massa. Il giovane Tolstoj, bocciato agli esami di ammissione alla facoltà di Lingue orientali, si iscrive a quella di Diritto, e legge intanto Dickens, Schiller, Puskin, Sterne e specialmente Rousseau, di cui a 15 anni portava al collo un ritratto, in un medaglione.
Negli studi, non eccelle e più tardi scriverà:
“Gli uomini di genio sono incapaci di studiare in gioventù perché sentono inconsciamente che bisogna imparare tutto in modo diverso da come lo impara la massa”.
Scrivere. “Non è difficile scrivere qualcosa, difficile è non scriverlo”.
Cantante. “Dinanzi all’albergo Schweizerhof, dove scendono i viaggiatori più ricchi, un cantante girovago, che vive di elemosina, per mezz’ora ha continuato a cantare e a suonare la chitarra. Circa 100 persone lo ascoltavano. Tre volte il cantante ha pregato tutti i presenti che gli dessero qualcosa. Nessuno gli ha dato nulla e molti hanno riso di lui”.
Napoleone. “Napoleone è simile a un bambino che tiene dei nastri fissati all’interno di una carrozza e si immagina così di guidare i cavalli”.
Domanda. Le incompiute Memorie postume dello starec Fëdor Kuzmic, dolcemente, pietosamente pervase dalla domanda su chi più confini con la verità: i vecchi, “pronti per l’aldilà”, o i bambini, “freschi dell’aldilà”.
Stivali. Certkòv e la moglie Sonja si contendono i Diari (Tolstoj, dal canto suo, ne va scrivendo uno “per sé solo”, che porta nascosto negli stivali: in tutta la sua grande casa, in tutta la Russia non c’è posto più intimo e sicuro).
Andarsene. “Andarsene, bisogna andarsene. Andrò in qualche posto dove nessuno possa disturbarmi… Lasciatemi in pace…”.
Sottigliezze. “Perché dire delle sottigliezze, quando ci sono ancora tante grandi verità da dire?”.
Magistratura. “Quanto alla magistratura, essa è semplicemente uno strumento amministrativo che serve a sostenere l’ordine di cose esistenti, favorevole alla nostra classe sociale”.
Prigione. “Sì, l’unico posto che qui in Russia convenga a un cittadino onesto è la prigione!”.