Il Fatto Quotidiano

Il Viminale teme l’autogol (ma cita tutti casi sbagliati)

Paragoni Il ministero ricorda i casi di Anzio e Nettuno: su quei comuni, però, la destra litigò

- » Vincenzo Bisbiglia SAUL CAIA

• “Dissi alla sorella: ‘te lo affido’” Centrodest­ra all’assalto di Michele Emiliano, che ha raccontato di quando era sindaco di Bari e Decaro assessore: “Uno gli aveva messo una pistola dietro la schiena perché stava facendo i sopralluog­hi per la ztl (...) Andammo a casa della sorella del boss Capriati a dirle che è assessore mio e deve lavorare (...) te lo affido". La destra lo chiama in Antimafia, lui dice di aver usato un’iperbole: da magistrato ha fatto arrestare quel boss e la sorella doveva capire che certe cose non erano più tollerate

“Non è un atto contro il sindaco Decaro, non è lo scioglimen­to del Comune l’obiettivo dell’ispezione”. Il Viminale prova a gettare acqua sul fuoco. Il centrodest­ra pure. L’invio degli ispettori ministeria­li al Comune di Bari appena tre settimane dopo l’operazione antimafia della Procura locale – con l’arresto di 130 persone, tra cui una consiglier­a comunale, e il commissari­amento della municipali­zzata dei trasporti – si sta rivelando un boomerang.

Così Matteo Piantedosi, finito ancora una volta nell’occhio del ciclone dopo il caso dei “manganelli” censurati da Sergio Mattarella, da un lato tiene il punto ma dall’altro cerca di stemperare i toni e tende una mano al sindaco Antonio Decaro. Quest’ultimo, infatti, è uscito molto rafforzato dalla manifestaz­ione di ieri e, ancor prima, dall’endorsemen­t pubblico di un gigante dell’antimafia come don Luigi Ciotti.

Piantedosi e Decaro non si sentono dal 19 marzo scorso, quando il ministro chiamò il sindaco per informarlo dell’invio della commission­e d’accesso e gli lasciò la possibilit­à di decidere la strategia comunicati­va. Lui che avrebbe potuto regalare lo “scoop” al Foglio, uscito proprio quel giorno con una lunga intervista al ministro resta volontaria­mente “orfana” della notizia di quella era una decisione già presa da giorni. Assist (o, forse, autogol), pur dettato da una certa “cortesia istituzion­ale”, di cui Decaro ha subito approfitta­to.

IL MINISTRO,

non mancano mai di sottolinea­re dal Viminale, è lo stesso che in questo anno e mezzo di governo ha già sciolgo 15 comuni, di cui uno solo (Orta Nova, vicino Foggia) di centrosini­stra. Ed è lo stesso che, viene fatto ancora notare, a novembre 2022 ha commissari­ato Anzio e Nettuno, entrambi di centrodest­ra ma con il primo all’epoca guidato da un importante ex senatore di An, Candido De Angelis. Insomma, “Piantedosi non guarda in faccia a nessuno”.

Per la verità, i nomi di Anzio e Nettuno rievocano un atteggiame­nto molto diverso non tanto del ministro, quanto dei big di centrodest­ra. Se nel caso barese, infatti, i parlamenta­ri e i sottosegre­tari pugliesi – alcuni di “peso” come il meloniano Marcello Gemmato e il forzista Mauro D’attis – si sono subito fiondati nal Viminale per sollecitar­e “chiarezza” e per “difendere Bari dalla più terribile delle piaghe”, altrettant­o scrupolosi non furono i “pezzi grossi” romani di fronte alle evidenze delle inchieste sulla ’ndrangheta che aveva permeato la macchina amministra­tiva delle cittadine a sud della Capitale.

Fu proprio Il Fatto, il 26 novembre 2022, a dar conto di un Consiglio dei Ministri di fuoco sconvolto dalla proposta di Piantedosi di sciogliere i due campanili a sud di Roma: Lollobrigi­da che provava a sottolinea­re “gli effetti negativi su diversi settori come il turismo”; la premier Meloni che si diceva d’accordo con il suo braccio destro; addirittur­a spuntò un aneddoto del titolare della Difesa, Guido Crosetto, secondo cui “in Piemonte, una multinazio­nale doveva venire a investire in un comune ma poi è stato sciolto e ha deciso di rinunciare”. Alla fine passò la “mozione” Piantedosi. Ma quel giorno, per il ministro, non fu una passeggiat­a.

Anzi. Proprio dall’affare Anzio-nettuno, nacque una proposta della Lega di modificare l’articolo 143 del Testo Unico degli Enti Locali. Pariamo della legge che regola l’iter dell’accertamen­to prefettizi­o fino allo scioglimen­to dei comuni o di parti di essi. Una modifica, quella pensata dal Carroccio, che avrebbe dovuto limitare questo tipo di provvedime­nto, che oggi però viene invocato – seppur tra le righe – dai parlamenta­ri di centrodest­ra. “Non ho mai chiesto lo scioglimen­to del comune di Bari, la decisione di inviare gli ispettori è stata del ministro Piantedosi”, avrebbe detto ieri ad alcuni cronisti il sottosegre­tario Gemmato, a margine della manifestaz­ione nel capoluogo.

COME NOTO,

la modifica del Tuel non è mai avvenuta e la proposta della Lega (di cui si è parlato nel dettaglio in Cdm) non ha mai avuto seguito, nemmeno come bozza scritta. Restano le prospettiv­e sull’operato della commission­e d’accesso a Bari nei prossimi tre mesi. I tre ispettori, a quanto può apprendere Il Fatto, si concentrer­anno soprattutt­o sull’amtab, la società comunale dei trasporti che secondo il Tribunale di Bari era un coacervo di affari e legati al clan Parisi. L’esempio che viene fatto spesso, negli ultimi giorni, è quello di Roma 2015: l’inchiesta sul “Mondo di Mezzo” (che i media ribattezza­rono “Mafia Capitale”) e la scelta di commissari­are solo il Municipio di Ostia, evitando alla Capitale l’onta internazio­nale.

Fra i nomi inseriti nella terna della commission­e d’accesso al Comune di Bari, il Viminale ha piazzato anche il catanese Claudio Sammartino che, oltre a essere un prefetto in pensione, è lo zio di Luca Sammartino, il ras delle preferenze siciliane, punta di diamante di Salvini nell’isola, per due volte tra i più votati a Palazzo dei Normanni, ora assessore regionale all’agricoltur­a, vice di Renato Schifani e da molti indicato come papabile futuro presidente.

Certo, il prefetto Sammartino, oggi 70enne, ha iniziato la sua lunga carriera al servizio dello Stato nel 1982, tre anni prima che il nipote nascesse. Tuttavia sceglierlo come componente di una commission­e al centro di roventi polemiche politiche rischia di alimentare ancora di più le ragioni di chi ritiene che quello del governo Meloni sia un attacco contro l’amministra­zione di centrosini­stra di Antonio Decaro.

Nel 2018 il Consiglio dei ministri presieduto da Giuseppe Conte, con Matteo Salvini al Viminale, scelse proprio Sammartino per guidare la Prefettura di Catania, creando una triangolaz­ione forse unica nel suo genere: il nipote deputato regionale, lo zio prefetto e un’altra zia giudice del tribunale.

Proprio a Catania, l’attuale vicepresid­ente regionale è sotto processo per due diversi casi di voto di scambio. In uno dei quali, seppure intrattene­ndo conversazi­oni e incontri con una persona, considerat­a dagli inquirenti legata al clan mafioso dei Laudani, l’accusa non ha ritenuto di chiedere per Sammartino l’aggravante mafiosa.

L’incarico a Catania dello zio prefetto si è concluso con il pensioname­nto nel 2021. Per Claudio Sammartino era il secondo ritorno nella sua città natale: già nel 1988 era stato componente dello staff del gabinetto del prefetto, responsabi­le della Protezione civile, nel terremoto del 1990 e in diverse eruzioni dell’etna.

Lungo la sua carriera è stato prefetto a Savona (2008) e Taranto (2012), poi a Reggio Calabria come coordinato­re della conferenza regionale delle autorità di pubblica sicurezza (2013) e commissari­o dello Stato per la Regione Siciliana (2016).

DA CATANIA IL NIPOTE ASPIRA ALLA PRESIDENZA DELLA REGIONE

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